di Raffaele Ciccarelli

A volte sono imperscrutabili le vie che il destino usa per far assurgere i personaggi a eroi delle sue storie, così come gi inizi possono sembrare controversi a causa delle situazioni che si vivono nel contesto, abituati troppo spesso a guardare gli avvenimenti del passato con gli occhi e le conoscenze di oggi, decontestualizzandoli dall’attualità di quel momento. È quello che si è pensato e scritto di Vittorio Pozzo, ad esempio, costretto a vivere quasi una damnatio memoriae perché sospettato di essere colluso con il regime fascista che avrebbe favorito le sue vittorie con la Nazionale, salvo poi scoprire il suo attivismo come partigiano. In maniera meno drammatica si può dire lo stesso di Luis Cesar Menotti, che ha concluso la sua parabola terrena in queste ore. Mezzala dalla buona tecnica ma non veloce, spese buona parte della sua carriera nel Rosario Central, collezionando anche una dozzina di presenze nella nazionale argentina. Fu come allenatore, però, che la storia si impadronì di lui. Alto, allampanato, si guadagnò il soprannome di Flaco che lo accompagnerà per tutta la vita, e iniziò ad allenare subito dopo aver appeso le scarpette al chiodo, vincendo un campionato Metropolitano con l’Huracan, impresa che gli valse la chiamata proprio alla guida della nazionale albiceleste, reduce dal fallimentare mondiale in Germania Ovest nel 1974, quasi un parallelo di quanto accadde all’Italia, che si sarebbe affidata prima a Fulvio Bernardini, poi a Enzo Bearzot per ricostruirsi, seguendo quest’ultimo quasi la stessa parabola del suo omologo argentino. Con lui, grazie alle sue idee, la nazionale argentina si dette un’organizzazione, diventando una squadra, e non un gruppo di giocatori anarchici, seppur talentuosi, trasformandola in una macchina perfetta espressione di un calcio offensivo ed elegante, predicando movimento intelligente della palla, passaggi rapidi, grande intensità a centrocampo e tattica del fuorigioco. Il tutto reso possibile dai grandi campioni, Mario Kempes e Osvaldo Ardiles su tutti, ovvero il braccio e la mente della nazionale che diventò campione del mondo nel 1978 in casa, ma anche Ubaldo Fillol, Daniel Passarella, Americo Gallego, Leopoldo Luque. Non ancora Diego Maradona che, pur sbocciato, non fu ritenuto pronto da Menotti, che però si servì del suo talento per vincere anche il mondiale Under 20 in Giappone nel 1979. Un carattere non propriamente accomodante, convinto delle proprie idee, anche politiche, polemiche suscitarono le sue foto con tanto di strette di mano felici con Jorge Videla: difficile pensare che non sapesse che erano mani grondanti sangue, altrettanto complicato decontestualizzare, come scritto per Pozzo, capire fino a che punto si tratta di condivisione o di opportunismo. Dopo quel biennio di successi la carriera di Menotti continuò ancora in nazionale, con la delusione dell’eliminazione in Spagna nel 1982, dove avrebbe trionfato Bearzot, in un altro incrocio cui abbiamo accennato sopra, poi un girovagare per il mondo, un’esperienza non felice anche in Italia, alla Sampdoria, fino a chiudere come coordinatore delle nazionali argentine. Un personaggio dalle mille sfaccettature, El Flaco, che possiamo ricordare,come epitaffio, con questo suo pensiero, che racchiude la sua idea di calcio: “Un gol deve essere solo un passaggio in rete”.

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