di Raffaele Ciccarelli

Il calcio spesso dà tanto ai suoi protagonisti, tanti calciatori sono passati alla storia per quanto hanno vinto, per le loro prodezze, per le grandi capacità tecniche dimostrate. Altre volte il destino si è divertito a trasformare onesti pedatori in campioni per una notte, facendoli diventare protagonisti positivi o negativi grazie a qualche estemporanea prodezza. Altre volte ancora è capitato che, nonostante le riconosciute capacità, le vittorie in serie, i trofei accumulati, sia una e una sola prodezza a rendere l’immortalità. È il caso del tedesco Karl Heinz Schnellinger, che in queste ore ha concluso la sua parabola terrena. Terzino sinistro poderoso nella struttura atletica, infaticabile nella corsa e duttile tatticamente, Schnellinger iniziò la sua carriera nel Colonia, ma le sue qualità gli attirarono ben presto le attenzioni di molti club, su cui la spuntò la Roma, dirottandolo prima a Mantova e facendogli indossare la casacca giallorossa nella stagione 1964/1965, vincendo subito con quella maglia la Coppa Italia della stagione precedente, primo trofeo italiano che si andava ad aggiungere al titolo tedesco vinto con il Colonia. La permanenza nella capitale sarebbe durata solo per quella stagione, perché nella successiva approdò alla corte del Milan. Quasi un decennio sarebbe durata la sua avventura in rossonero, e in quegli anni contribuì a scrivere la gloria del club. Insieme a sodali come Gianni Rivera, Giovanni Trapattoni, Fabio Cudicini, Pierino Prati Schnellinger poté scrivere il suo nome tra i vincitori di due scudetti, due Coppa Italia, ma soprattutto la seconda Coppa dei Campioni del Milan, quella vidimata da Nereo Rocco nel 1969. Non solo squadre di club, naturalmente, perché le sue capacità gli valsero anche la convocazione in nazionale, partecipando a quattro edizioni del mondiale, quelle che videro scrivere la storia al Brasile di Pelé, tra il 1958 e il 1970. Nel 1966 fu protagonista sfortunato con la maglia bianca, arrivando fino alla finale contro l’Inghilterra padrona di casa e del contestato gol di Geoff Hurst, nel 1970 si fermò in semifinale, e qui proprio l’Italia entrò ancora nel suo destino. Era, infatti, in campo quel 17 giugno del 1970 allo stadio “Azteca” di Città del Messico, quando azzurri e bianchi si giocavano l’accesso alla finale contro il Brasile. La partita sembrava segnata, dopo la rete iniziale di Roberto Boninsegna fu solo uno sterile attaccare dei tedeschi e l’esaltazione delle doti difensive degli azzurri. Fu proprio lui, al novantesimo, lui che era già protagonista conclamato, già aveva vinto tanto, a diventare eroe non per caso. Leggenda o verità vuole che Schnellinger, considerando chiuso il match, stesse caracollando verso gli spogliatoi che si trovavano dietro la porta di Ricky Albertosi, e passando lì davanti casualmente trovò la deviazione vincente su un ultimo cross della disperazione di Jürgen Grabowski dalla sinistra per il pareggio e per dare inizio all’epica. In questo modo, uno che era già protagonista nella storia del calcio, scrisse per sempre il suo nome nella leggenda. 

Karl-Heinz Schnellinger

Foto da Wikipedia.org

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