di Marco Giani

È veramente godibile, il racconto «I “maiaramina” eravamo noi”, di Paolo Di Stefano – che si può leggere all’interno di Azzurri, 2006, ma noi lo citiamo da La partita di pallone. Storie di calcio, a cura di Laura Grandi e Stefano Tettamanti, Palermo, Sellerio, 2014. Si viene infatti catapultati nell’estate del 1966 in Canton Ticino, nella casa di una famiglia emigrata dalla Sicilia, con la voce narrante del figlio.

La periferia di Lugano che il protagonista racconta, e in particolare il palazzo dove abita coi genitori al civico 6 di via General Guisan, è un vero e proprio quartiere multietnico ante-litteram: qui infatti «si mescolavano i Rusca, i Rezzonico e i Macullo con i Trippel e i Seydel; i Filippini e gli Agostini con i Pfund e i Mader; i Bernasconi e i Garofalo con i Meier e i Meierhof.

Uno dei fenomeni che Paolo Di Stefano spiega meglio – sarà anche la sua dose di esperienza personale, essendo lo scrittore, nato nel 1956 ad Avola (Siracusa), cresciuto proprio in Svizzera – è il dilemma dell’integrazione degli italiani: di fronte alla diffidenza nei nativi, infatti, alcuni dei protagonisti del racconto decidono di abbandonare il tifo azzurro: al posto di sostenere i nostri durante la fatale Italia – Corea del Nord, tifano Svizzera durante la sfida contro l’Argentina. La Nazionale italiana di calcio, del resto, era apertamente osteggiata dai nativi, con «uno zelo anti-italiano degno di miglior causa. Tant’è vero che la sera del 19 luglio 1966 alla finestra del «Passero solitario» (il custode svizzero-tedesco dello stabile) «sventolavano una di fianco all’altra due bandiere, quella svizzera e quella coreana, che riassumevano i sentimenti profondi di una parte del popolo ticinese e soprattutto rivelarono i suoi pochi reconditi auspici. Che l’undici elvetico facesse il miracolo contro i colossi argentini e che soprattutto i pigmei orientali riducessero a polpette i boriosi “maiaramina” azzurri […]. Maiaramina, ovvero mangia-frontiera, erano tutti i topi meridionali che si accalcavano sul confine per rosicchiare la rete e oltrepassarla, magari in clandestinità. Eravamo noi, i maiaramina» (pp. 273-274).

Un personaggio secondario del racconto ci permette di capire come, nonostante tutto, anche il Canton Ticino italofono dell’epoca fosse non molto diverso dall’Italia degli anni Sessanta (quella di Donatella Evangelista: vd. https://www.la-cross.org/la-compagna-che-sbaglia-radioline-e-figurine-storie-di-tifo-femminile-da-tifosa-e-basta-di-donatella-evangelista/ ), proprio nei momenti in cui, a livello di persone adulte, il calcio femminile stava finalmente per decollare: al livello più basso, quello pre-sportivo, le bambine che provavano a giocare coi propri coetanei maschi nei momenti liberi venivano guardate male. È il caso di Consuelo, unica bambina accettata in virtù delle sue doti calcistiche, cioè «le bombe partite dal potente alluce destro» che immancabilmente rischiavano di sfondare uno dei cancelletti del Passero solitario (p. 272). Consuelo, comunque, veniva aggiunta alle formazioni, «di solito a piedi nudi, solo se eravamo dispari: difensore arcigno, con cosce brevi ma muscolose e un tiro di punta micidiale, capace di stamparti bruciori sulle gambe per giorni. Spesso eravamo dispari, e Consuelo veniva ormai convocata d’ufficio. Le altre ragazze stavano a guardarci sedute sui muretti» (p. 271).

Fotografia di copertina: Renzo Baggiani, “Bambini che giocano a palla”, https://www.fotocommunity.it/photo/bambini-che-giocano-a-palla-renzo-baggiani/39096626 .

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