di Marco Giani

Arrivata nel settembre del 1947 alla fatidica età di 12 anni, Lea Pericoli viene presa da parte dal padre Filippo, perché «Leuccia, è arrivato il momento di decidere». Non essendoci scuole occidentali ad Addis Abeba, l’adolescente può decidere se essere mandata al Collegio delle Fanciulle di Firenze, oppure al Loreto Convent di Nairobi. Lea opta per la destinazione kenyota non solo perché ciò le avrebbe permesso di ritornare a casa ogni tre mesi, ma anche per «lo sport che amavo e che avrei potuto praticare» (p. 115).

Giunta a Nairobi, Lea raggiunge da sola, grazie ad un taxista locale, il collegio di suore cattoliche, senza un’accompagnatrice. Situazione oltremodo imbarazzante all’epoca, eppure «in quel momento erano ben altre le mie angosce e le priorità. Il taxista mi aveva portata in un posto dove la prima cosa su cui si fissarono i miei occhi fu un campo da tennis. Alla vista della terra rossa mi si aprì il cuore. Era il primo buon segno di quel viaggio!» (p. 116). Stringendo sotto braccio «le mie due racchette, per farmi coraggio», Lea si inoltra nel cuore della struttura educativa, fino a che incrocia finalmente una suora: «Le dissi il mio nome. Lei non capì. Le consegnai il passaporto [italiano] e, visto che era l’ora della ricreazione, a cenni le spiegai che mi sarebbe piaciuto giocare a tennis. In quel momento soltanto il tennis poteva essere di conforto a una vita così desolata. La suora chiamò una ragazzina un po’ più grande di me. Lei corse a prendere una racchetta e cominciammo a palleggiare. Tentai subito di dimostrarle che ero la più brava, e questo riuscì a sviarmi dalle mie disgrazie» (p. 117). Alla fine della giornata venne sciolto il misunderstanding: Lea si era fatta portare ad un altro convento di suore della congregazione, non a quello presso cui era attesa!

L’impatto con la nuova scuola è abbastanza scioccante per la figlia di Filippo Pericoli, prima di tutto per la lingua inglese, e poi per tante usanze diverse da quelle italiane, ma «per inserirmi e conquistare la stima delle mie compagne fu importantisismo lo sport. Ero brava a tennis. Montavo bene a cavallo. Entrai a far parte, come centrattacco, della prima squadra di hockey, poi mi selezionarono per la squadra di baseball, che noi donne giocavamo con le stesse regole degli uomini, ma con una palla leggermente meno dura e più grande. I miei fallimenti venivano dall’atletica. Ero scarsa nei cento metri. Non ottenevo risultati nel salto. La ginnastica mi annoiava» (p. 121). Un’offerta formativa, quella del Loreto Convent, abbastanza anomala per una ragazzina italiana di fine anni Quaranta: tennis ed equitazione erano discipline accessibili solo a ragazze dell’alta società, mentre quelle più in basso nella scala sociale dovevano accontentarsi proprio di quelle discipline in cui Lea sentiva di non riuscire, cioè atletica leggera e ginnastica. Solo a Nairobi una figlia di italiani poteva piuttosto avere accesso all’hockey su prato[1] e alla variante del baseball[2]: nella madrepatria uscita a pezzi dalla Seconda Guerra Mondiale a Lea sarebbe stato piuttosto proposto il basket diffuso ad arte qualche anni prima dal regime fascista, o al massimo la pallavolo che si stava diffondendo in quegli anni soprattutto in ambito uispino e dopolavoristico.

Col passare degli anni Lea trovò tuttavia la propria strada non in questi giochi di squadra, bensì sul campo rosso: «Passarono le stagioni. A quattordici anni divenni campionessa juniores di tennis del Kenya, Uganda e Tanganica. Allora le bambine dei militari e dei farmers inglesi venivano spedite nei collegi di Nairobi da quelle tre grandi regioni, che dopo il dominio britannico divennero tre paesi indipendenti: Kenya, Uganda e Zambia. Fino a diciassette anni, a Nairobi, vinsi tutto quello che c’era da vincere nei tornei di tennis che si giocavano al Parklands Club». Lea sottolinea quanto queste vittorie l’aiutassero ad essere accettata in una comunità scolastica abbastanza diffidente nei suoi confronti a causa del suo cognome: «Quando tornavo in collegio dopo una vittoria le 180 ragazze del Loreto Convent si alzavano in piedi prima della cena per dedicarmi l’inno della vittoria: “For Lea is a jolly good fellow … and so say all of us …”. Ero orgogliosa di aver conquistato tanta ammirazione, rispetto e stima da parte di ragazze che guardavano con sospetto persino i bianchi che non avessero origini anglosassoni. Per loro anche gli italiani erano una razza inferiore» (p. 121).

La scuola religiosa frequentata dall’adolescente Lea le fornisce soprattutto l’incontro con una donna molto diversa da sua madre, nella quale può riconoscere un modello alternativo credibile di femminilità: «La suora più bella del Loreto Convent era Mother Pity Clever. Aveva gli occhi chiari, un nasino molto piccolo e denti bianchissimi. Era la più carina ma anche la più cattiva. Noi allieve la guardavamo ammirate, fantasticando su un passato avvolto nel mistero. Doveva ben esserci una ragione per cui si era fatta suora, e tutte pensavamo a una delusione d’amore» (p. 125). L’insegnamento motivazionale della religiosa, tutto teso a far sprigionare dalle ragazzine affidatele forze interiori altrimenti destinate a rimanere ben celate, si mantiene sul generale, eppure Lea ben presto avrà modo di metterlo in pratica sul campo da gioco: «Mother Pity Clever aveva un motto: “Qualunque cosa facciate nella vita, fatela fino in fondo”. Più che un suggerimento, era un ordine! Ci insegnava una grande verità: “Se il singolo gradino può apparire insignificante perché al momento non cambia molto, un lungo cammino può trasportarti tanto, tanto lontano”. Il monito di quella suorina divenne fondamentale per me. Non a caso ho sempre cercato di dare il massimo con grande pignoleria. Una cosa è certa: qualunque cosa abbia fatto, è risultato il massimo di quanto potessi fare io. Prendiamo per esempio il tennis. Io giocavo ogni punto come se fosse l’ultimo della partita. Quando ero stanca ingannavo me stessa dicendomi: “Ora gioco questo quindici, poi, anche se il match non è finito, me ne vado via” […]. Fare una cosa bene fino in fondo nel tennis per me significava: grande concentrazione, sapersi estraniare, escludere dal cervello ogni elemento negativo per dedicarsi a ogni singolo quindici. L’insegnamento di Mother Pity Clever mi ha aiutato anche nella vita. Avevo imparato ad applicare la sua filosofia spicciola ma utilissima. Si trattava di una straordinaria disciplina che mi ha fatto superare grandi dolori, tante paure, fantasmi e malattie. La vita nel collegio era monotona. Al di là di qualche sprazzo di gioia legato agli sport, tutto scorreva in maniera esasperante e ripetitiva […]. Io non osavo confessarlo, ma invidiavo le mie compagne protestanti perché invece di andare a messa all’alba dormivano e durante il rosario potevano continuare a giocare a tennis, a hockey o a preparare la lezione per il giorno successivo» (pp. 125-127). Per altro, è da segnalare come Mother Pity Clever non fosse l’insegnante di ginnastica, la quale viene ricordata piuttoso da Lea in un altro passaggio di Maldafrica. Ormai adulte, infatti, molte ex alunne del collegio kenyota organizzano una rimpatriata a Londra, cui Lea non può partecipare, ma «da Londra mi arrivò una cartolina con moltissime firme. Ne riconobbi poche. Una sola scintilla si accese nella mia memoria, quando lessi il nome di Mother Hycinth. Si trattava della suora sportiva, quella che, al mio arrivo da Addis Abeba, mi aveva buttato via indignata tutte le maglie di lana che mi aveva dato la mamma. Mother Hycinth non mi aveva dimenticata: con le mie vittorie a tennis e a hockey le avevo regalato grandi soddisfazioni. Qualche giorno fa [nel 2009] mi è arrivato un messaggio da Julie [una sua ex compagna] che mi annunciava: “Mother Hycinth is still alive!”. Pensate che meraviglia. La nostra suorina sportiva è ancora viva e ha superato i cento anni» (p. 130).

Date queste figure di «suore sportive» – che certo Lea non avrebbe mai potuto incontrare in scuole rette da religiose nel Belpaese – è facile capire lo shock culturale che avviene nel 1952, quando la ragazza arriva diciassettenne in Italia. La mentalità, incarnata dalla genitrice ritornata in campo per salvaguardare l’onore della figlia, è completamente differente. Così, alla vigilia di un match tennistico, Lea va coi compagni di misto in un night, «ben felice di far tardi. A quei tempi era tutto diverso. Le signorine perbene non uscivano da sole, quindi dovevo fare i salti mortali per salvarmi dalla mamma: “Se vuoi giocare a tennis” mi ammoniva, “devi andare a letto presto!”» (p. 146). Le stesse condizioni economiche delle tenniste azzurre erano all’epoca assai precarie: «Nessuno ci rimborsava il viaggio né il soggiorno, neppure la Federazione Italiana, che si limitava ad ospitarci durante gli incontri internazionali […]. Nei tornei la mia vita era più facile. Grazie alle mutandine di pizzo, riuscivo a strappare qualche bell’invito, pagata sottobanco, ma si trattava di poche lire. Era l’epoca del dilettantismo. Tempi in cui accettare denaro comportava la squalifica a vita» (p. 152).

L’accenno alle mutandine di pizzo ci porta diritti alla vicenda che fece diventare Lea Pericoli famosa non solo in tutta Italia, ma nel mondo intero. L’autrice prende alla larga il tutto, non solo dichiarando che «”eleganza” è una parola che ho amato profondamente» ma soprattutto spiegando qual era il desolante contesto in cui doveva operare: «Negli anni Cinquanta le giocatrici di tennis indossavano dei vestitini scialbi oppure la maglietta con una gonnellina preferibilmente a pieghe, abbastanza lunga da nascondere le mutande. Nessuna si azzardava a truccarsi sul campo da tennis. Molte avevano la visiera, stranamente ritornata di moda nel Duemila» (pp. 209-210). Che Lea sia e voglia essere diversa (anche per far conoscere meglio la piccola comunità sportiva al femminile cui appartiene) lo capisce sin da subito: «Quando arrivai in Italia giocai i primi tornei con dei pantaloncini molto corti che mettevano inopportunamente in risalto le gambe. Al Foro Italico mi accorsi che, come tante altre povere tenniste, venivo messa in orari alle nove del mattino su campi periferici, mentre al mio adorato amico Nicola Pietrangeli era riservato il Centrale alle quattro del pomeriggio. Avevano ragione gli organizzatori! Nicola era un campione straordinario mentre noi donne, castigate dalle racchette di legno, eravamo noiose da guardare. Tutto questo per spiegare al lettore che bastò un bel paio di mutandine di pizzo per scatenare la rivoluzione. Contrariamente alle altre, io giocavo truccata. Mi legavo i capelli con un nastro perché ero profondamente convinta che l’aspetto non avesse nulla a che fare con l’abilità. Un bel vestitino non peggiorava la tecnica, anzi rendeva più gradevole l’aspetto di chi osava indossarlo» (p. 210). Non stupisce scoprire che i nemici della rivoluzionaria Lea si celano non solo fra i maschi, ma pure fra coloro che dovrebbero, in quanto donne, sostenerla: «Ovviamente non tutti approvavano quella che molti consideravano un’autentica provocazione. Negli spogliatoi alcune tenniste, con me, si comportavano da nemiche. Ricordo quando una giocatrice inglese, alludendo alle mie mutande, disse alla sua compagna di doppio: “Easy to take off!”, [cioè] “facili da togliere!”. L’inglesina non pensava che io conoscessi la lingua meglio di lei e rimase sconvolta quando le risposi: “Tranquilla, amica mia, ci vuole lo stesso tempo a levarsi un paio di brutte mutande come quelle che indossi tu!”. Sapevo che, mettendomi un paio di mutandine di pizzo, dovevo per forza vincere, altrimenti mi sarei offerta a critiche severissime. Bastava stare un po’ attente! Quando dovevo affrontare la lotta vera, entravo in campo tutta vestita di bianco per non prestare il destro a critiche» (pp. 210-211).

Nel 1954 Lea Pericoli arriva al Roland Garros: «Giocai il doppio misto con Bitti Bergamo, il ragazzo più bello del nostro tennis. E fu proprio a Parigi quell’anno che, per la prima volta, incontrai Ted Tinling, il celebre colonnello gay che, arbitrando un match di Suzanne Lenglen, si innamorò del tennis femminile al punto da dedicargli la sua vita. Era stato Tinling a creare gli abiti di Gussy Moran, la bella giocatrice americana, le cui immagini arrivarono addirittura al Loreto Convent di Nairobi alla fine degli anni Quaranta. Guardando le fotografie di “Gorgeous Gussy” mi dicevo: “Se un giorno diventerò brava, tenterò anche di essere più bella di lei!”». Un ricordo, questo, assai significativo: se a fine anni Trenta la liceale Margherita Hack vedeva in Ondina Valla un possibile modello per i suoi sogni sportivi[3], solo dieci anni dopo la nostra connazionale cresciuta in Africa doveva rivolgersi ad una figura di sportiva straniera, giacché l’orizzonte sportivo italiano non le forniva alcuna donna in cui rispecchiarsi. «Durante il Roland Garros, Tinling mi chiese se volevo indossare un suo vestito per il torneo di Wimbledon. Ovviamente gli dissi di sì! Mi informò che il suo vestito mi sarebbe costato tutti i biglietti che gli organizzatori mi avrebbero dato. Non erano tanti, intendiamoci, perché a ogni giocatore ne consegnavano uno fino a quando era in gara, oltre a un carnet con il ticket per la colazione. La settimana prima di Wimbledon giocai nel torneo di Beckenham per abituarmi all’erba. E lì scoppiò il primo scandalo sui tabloid inglesi. Diventai la tennista italiana che indossava le mutande di pizzo! Era vero! Come era vero che i fotografi per riprendermi si sdraiavano in terra per rendere le immagini più scandalose» (pp. 211-212)

Al primo turno di Wimbledon 1955 Lea avrebbe dovuto sfidare Pepa De Riba: «Quando misi il piede sul campo numero 4 nel Lady’s Day, che allora era la giornata destinata alle signore che iniziavano i martedì perché il tabellone era composto da 64 giocatrici, mi trovai di fronte una schiera di fotografi. La gente si ammassava. Tutti facevano rumore. In un angolo c’era Ted Tinling che aveva disegnato per me un abitino bianco con gli smerli sulla scollatura e una gonnellina a ruota. Sotto la gonnellina si celava una sottoveste di nailon plissettata e le mutandine di pizzo rosa. Quando l’arbitro annunciò “Miss Pericoli to serve”, tentai di servire. C’era un po’ di vento e ogni volta che si alzava il gonnellino scoprendo l’invenzione peccaminosa di Tinling partiva un boato» (p. 213). Presa da tali questioni extrasportive, Lea perde la concentrazione: «Quel primo turno a Wimbledon fu un’esperienza d’inferno. Riuscii a vincere il primo set 6-1, ma la partita mi sfuggì di mano. Spiazzata, deconcentrata, prima di rendermene conto avevo perso. Mi ritrovai a singhiozzare nello spogliatoio, dove nessuna era disposta a consolarmi. C’erano solo tenniste indignate dall’oltraggiosa arroganza. Ma che cavolo avevo combinato! Avevo infranto il sogno della mia vita. Avevo buttato via il mio primo turno a Wimbledon, oltre all’occasione di giocare sul Centrale. Tutto per un paio di stupide mutande e per una sottoveste rosa!» (p. 213). Tardiva e patetica, arriva pure la FIT, con commissari a tal punto ottusi da non riuscire nemmeno a capire cosa ci fosse stato di veramente scandaloso nella vicenda su cui pure stavano indagando: «Intanto, per lo scandalo, si era mossa anche la Federazione Italiana. Arrivò a Londra una commissione per misurare la lunghezza del gonnellino incriminato. Nessuno degli incaricati si rese conto che tutto quel pandemonio non lo aveva provocato la lunghezza della gonna, ma ciò che stava sotto, la sottoveste con le mutande rosa. La sottanina era uguale a quella delle altre tenniste. Di conseguenza, venni assolta!» (p. 215).

Fotografia di copertina tratta da https://www.tenniscircus.com/circuito-wta/lea-pericoli-esempio-di-classe-senza-eta/  .


[1] Si presuppone che si tratti di hockey su prato (disciplina tradizionale e ancor oggi proposta alle alunne delle Isole Britanniche), piuttosto che di hockey su rotelle. Per una rassegna di fonti giornalistiche sul field hockey femminile nell’Italia fascista, vd. https://twitter.com/calciatrici1933/status/1020411036837478401 . Dovrebbe avere una fonte anglosassone il racconto Vanda l’orfanella, pubblicato nel 1933 dalla rivista per bambine Primarosa, su cui vd. la nota 25 di M. Giani, “Cattoliche, fasciste e sportive”: una testimonianza sulla pratica sportiva femminile (1933), «Olimpia», I, 2-3 (dicembre 2017/giugno 2018), pp. 59-108, http://bit.ly/2vilWg0 . La protagonista riesce infatti ad essere accettata dalle nuove compagna di collegio grazie alle sue prestantissime performances nella squadra d’istitituto di field hockey.

[2] Lo sport di cui parla Lea dovrebbe situarsi a metà strada fra il baseball e il softball, disciplina nata come variante femminile implicitamente citata nel passaggio. Se infatti l’uso di una palla più grande e più leggera è in effetti una delle caratteristiche del softball, quest’ultimo ha tuttavia ulteriori differenze di regolamento rispetto alla disciplina “maschile” del baseball.

[3] Margherita Hack e Federico Taddia, Nove vite come i gatti, BUR, Milano 2013, p. 18.

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