dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014)

di Sergio Giuntini

“Nel quadro delle profonde evoluzioni della società europea fra le due guerre mondiali, lo sport assolse un ruolo politico e sociale di rilievo soprattutto all’interno dei regimi totalitari: questi ne sfruttarono le potenzialità non soltanto come mezzo di propaganda sul piano internazionale, ma anche come strumento di controllo sociale. Esemplare l’esperienza del fascismo italiano, che mirò a legare a sé gli strati popolari – oltreché attraverso la coercizione – attraverso una loro progressiva familiarizzazione a valori e simboli di una comune coscienza nazionale. Il regime mussoliniano costituì il primo esempio di utilizzazione dell’organizzazione sportiva come strumento di propaganda. Il modello italiano avrebbe trovato imitatori non solo nel Terzo Reich hitleriano, ma in gran parte dei regimi totalitari europei: dall’Ungheria di Horthy alla Francia di Vichy, dalla Spagna di Franco al Portogallo di Salazar […]. Quanto le imprese divenissero funzionali alla propaganda del regime fascista è testimoniato dalla popolarità che, a partire dagli anni venti, venne ad assumere il fenomeno sportivo nella società italiana. Se alle origini, e ancora nei primi anni del Novecento, lo sport era fatto elitario, proprio negli anni del regime fascista esso si avviò ad assumere caratteristiche di massa. La crescita degli sport nell’Italia degli anni trenta fu accompagnata dalla nascita di uno dei miti più rappresentativi del fenomeno sportivo: quello del divismo”. 

Così Stefano Pivato, redattore della voce “Sport” (altrettanto utili sono le pagine che a questo tema dedica anche il Dizionario dei fascismi di Pierre Milza, Serge Berstein, Nicola Tranfaglia, Brunello Mantelli, edito da Bompiani nel 2002; in particolare vedi le pp. 606-609) nel recente Dizionario del fascismo (2003) curato da Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto per i tipi della Einaudi di Torino. Pur nella loro sinteticità, le righe di Pivato indicano nell’avvento del totalitarismo fascista un punto di svolta, uno spartiacque decisivo per le sorti dello sport in Italia. Sia qualitativo, sul versante delle prestazioni, con l’eccezionale secondo posto dietro i padroni di casa nel medagliere delle Olimpiadi di Los Angeles del 1932 e le due affermazioni nella Rimet di calcio del 1934 e 1938; sia quantitativo, per l’incremento registrato nel numero di praticanti inquadrati nelle federazioni del CONI, nell’Opera Nazionale Balilla (ONB), nell’Opera Nazionale Dopolavoro (OND), nei Gruppi Universitari Fascisti (GUF), e nelle dotazioni di strutture impiantistiche per lo sport. Il fascismo, pur in presenza di innegabili gravi contraddizioni e del suo carattere di regime violentemente repressivo e autoritario, introdusse quindi una notevole, innegabile, discontinuità rispetto ai limiti partecipativi e organizzativi dello sport nell’Italia liberale. Ciò, tramite una serie di tappe forzate, attuate tra il 1925 e il 1928 sotto l’attenta regia del massimo ideologo dello sport Lando Ferretti, che per brevità ricapitoliamo in questa cronologia: 

1° maggio 1925: istituzione OND; 

3 aprile 1926: creazione ONB; 

1926: emanazione della Carta di Viareggio, con cui si riordinava organicamente tutto il sistema calcistico nazionale; 

1927: il CONI veniva definitivamente asservito all’autorità politica, passando alle dirette dipendenze del Partito Nazionale Fascista (PNF); –

1928: attivazione dell’Accademia di Educazione Fisica maschile della Farnesina a Roma; 

30 dicembre 1928: promulgazione della Carta dello Sport, con la quale si delimitavano i campi d’azione sportiva rispettivamente del CONI, dell’ONB, dell’OND, dei GUF, della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale (MVSN). 

Con queste riforme, poteva ritenersi sostanzialmente ultimata l’opera di completa “fascistizzazione” dello sport italiano. Un’architettura oltremodo articolata, ma a suo modo efficiente, sulla quale si modulerà l’esperienza sportiva nazionalsocialista. Sotto questo aspetto, come notato anche da Pivato, lo sport nella Germania nazista ricalcò esattamente quello italiano. Più segnatamente, si suddivise in tre precipue branche non dissimili dall’organizzazione sportiva fascista: 

  • Lo sport agonistico di vertice sottoposto al concetto direttivo del Fuhrerprinzip e al rigido controllo del Reichsportfuhrer: nella fattispecie di Hans Von Tschammer und Osten, una sorta di Lando Ferretti tedesco; qualcosa cioè, di facilmente riconducibile al CONI italico, che durante il Ventennio vide avvicendarsi alla sua presidenza segretari o vice-segretari del PNF; 
  • Lo sport giovanile affidato alla Hitlerjugend, che all’incirca riproponeva i meccanismi della formazione educativa totalitaria proposti dall’ONB. 
  • Lo sport non competitivo per le masse lavoratrici, gestito dal movimento Kraft-durch-Freude (La Forza con la Gioia) che si esemplava chiaramente sull’OND mussoliniana. 

Questo riflettersi oggettivo dello sport nazista nel modello dello sport fascista italiano, andrebbe naturalmente maggiormente studiato e approfondito. Esso pare davvero costituire, infatti, uno degli elementi più interessanti mediante cui comparare i due principali totalitarismi di destra nell’Europa del Novecento. Stante ciò, a proposito soprattutto del fenomeno sportivo nazionalsocialista, preme qui sottolineare un aspetto peculiare fino ad oggi, forse, non adeguatamente valorizzato dalla storiografia. Ovvero l’impatto che le Olimpiadi berlinesi del 1936 – la più macroscopica autocelebrazione dello sport nazista e dell’ideologia razzista e antisemita perseguite dall’hitlerismo – ebbero sulle opinioni pubbliche e i governi democratici del mondo libero occidentale. Al riguardo si è sempre sostenuto che vi fu una pressoché assoluta assenza di opposizione a quei Giochi Olimpici, rilasciando così una folle patente di legittimità all’hitlerismo. Tutto questo è in buona parte vero, ma sembra anche giusto rivalutare appieno i diversi, più robusti tentativi di boicottaggio e contestazione, che tali Olimpiadi in realtà suscitarono. Si pensi all’Olanda e in particolare agli Stati Uniti d’America, che vissero una lacerante spaccatura interna tra A.A.U. (Athletic Amateur Union) e parti del Comitato Olimpico Americano presieduto da Avery Brundage, il futuro presidente del C.I.O. Contrario alla partecipazione della squadra nord-americana era il massimo dirigente dell’AAU Jeremiah Mahoney. Altrettanto sfavorevole il membro statunitense del CIO, generale Charles H. Sherril, che, il 24 agosto 1935, ottenuto un colloquio di un’ora con Hitler, cercò vanamente di convincere il Fuhrer ad inserire nella nazionale olimpica germanica – quale atto di buona volontà – almeno un atleta ebreo-tedesco. Viceversa, perché gli Stati Uniti si presentassero regolarmente ai Giochi di Berlino si dichiarò sempre Brundage, il quale giunse a sostenere che dietro un’eventuale boicottaggio si celavano facoltose lobbies ebraiche e comuniste. E perciò, fino all’ultima votazione, con un dibattito rimasto accesissimo in seno al Congresso dell’AAU del 6-8 dicembre 1935, la decisione se aderire o meno rimase incerta e contestatissima. Parimenti difficile fu la scelta cui si trovò di fronte la Francia. Appena insediatosi il nuovo governo di Fronte Popolare, quest’ultimo, in una turbinosa seduta parlamentare del 9 luglio 1936, finanziò la spedizione transalpina a Berlino, e, nel medesimo tempo però, offrendo un saggio di assai poco edificante realpolitik, stanziò 600.000 franchi a vantaggio di coloro che si fossero recati a disputare l’Olimpiada Popular di Barcellona. Tale Olimpiada, che avrebbe dovuto tenersi nella capitale catalana dal 19 al 26 luglio 1936, si proponeva esplicitamente quale contro-Olimpiade; avrebbe dovuto rappresentare simbolicamente, confluendovi gli atleti convintamente antifascisti di molte nazioni, la risposta del mondo civile ai giochi hitleriani – una saga del tradimento dei più elementari diritti umani – dell’agosto successivo. Ad abortirne sul nascere lo svolgimento, fu l’Alzamiento franchista del 18 luglio 1936; la ribellione armata dei militari contro la Repubblica, che trascinò la Spagna in una lunga, brutale guerra civile protrattasi sino al 1939. Quell’incompiuta Olimpiada Popular resterà comunque tra le pagine migliori, più belle, della storia della coscienza civile e democratica tra le due guerre. Un altro capitolo, quasi sconosciuto, su cui gli storici dovranno concentrare maggiormente i propri studi, affinché non ne vada colpevolmente persa la memoria, il denso significato ideale e morale. 

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