di Raffaele Ciccarelli
A volte nello sport per passare alla storia, essere ricordato dai tifosi, non serve avere compiuto grandi imprese, vinto trofei, ma avere avuto la fortuna di trovarsi nel momento in cui la magia esplodeva il suo lampo, istantaneo e incandescente al tempo stesso. Humberto Maschio, deceduto in queste ore, è ricordato nella storia del calcio non tanto per i gol e i trofei vinti, quanto per due situazioni, una di colore, se vogliamo, e l’altra più drammatica. Nato ad Avellaneda, in Argentina, con ascendenti italiani, come tanti che vivono in quel Paese, si mise in luce a centrocampo, prima come giocatore di manovra, poi come interno offensivo, passando ben presto a vestire i colori biancocelesti del Racing, che sarebbe rimasta la squadra del suo cuore. Le sue prestazioni gli valsero la chiamata in nazionale, e fu con i colori dell’Argentina, biancocelesti anch’essi, che si mise in mostra nella Copa America del 1957 in Perù, portando alla vittoria la sua nazionale grazie alle nove reti realizzate, guadagnandosi un primo accesso nella storia insieme ad altri due sodali, Omar Sivori e Valentin Angelillo, conosciuti in seguito come “los angeles de cara sucia”, gli angeli con la faccia sporca, a sottolineare il loro spirito combattivo che non li faceva risparmiare, sposando aggressività a qualità tecnica. Fu il Bologna in quell’anno a portarlo in Italia, così come la Juventus avrebbe ingaggiato Sivori e l’Inter Angelillo, che ebbero una parabola italiana più felice rispetto a Maschio. Questi, infatti, soffriva le marcature strette di cui era già tipico il nostro calcio, ed ebbe difficoltà iniziali ad affermarsi, tanto che Renato Dall’Ara, presidente dei felsinei, lo cedette dopo solo due stagioni all’Atalanta. Qui, grazie anche all’aiuto di Ferruccio Valcareggi, che era l’allenatore degli orobici, Maschio ritrova fiducia tanto da guadagnarsi, dopo tre stagioni, la chiamata dell’Inter. In quella che proprio in quella stagione 1962/1963 iniziava a diventare la Grande Inter, sotto la guida societaria di Angelo Moratti e quella tecnica di Helenio Herrera, in realtà Humberto trovò poco spazio a favore di un ragazzino terribile che godeva i favori del Mago, Sandrino Mazzola, ma riuscì comunque a contribuire alla causa siglando quattro reti in quindici partite. Ci fu il passaggio alla Fiorentina, dove dopo tre stagioni avrebbe chiuso la sua avventura italiana, arricchendo il suo palmares con una Coppa Italia e una Mitropa Cup, prima di regalarsi l’ultimo acuto con la maglia del suo amato Racing, vincendo Libertadores e Intercontinentale nel 1967. Questa ha rappresentato quella parentesi colorata di cui all’inizio, fatta di alti e bassi ma di buone soddisfazioni, il momento drammatico lo visse in Cile, ai mondiali lì organizzati e a cui partecipava con la maglia azzurra da naturalizzato, in campo in quella passata alla storia come “la battaglia di Santiago”, e in cui Maschio fu protagonista negativo, colpito al volto da Leonel Sanchez e costretto a finire la partita con il naso rotto, non esistendo sostituzioni all’epoca. Resta il ricordo di un giocatore che, pur senza particolari acuti, ha lasciato una traccia nella storia del calcio italiano.