dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014)
di Fabrizio Felice
La belle époque ha un inizio simbolico che coincide con l’inaugurazione avvenuta nell’aprile del 1900 del “palcoscenico del mondo”, l’Esposizione Universale di Parigi, e una conclusione concretissima e fragorosa che ha luogo nell’agosto del 1914, quando una delle tante guerre balcaniche si trasforma in conflitto europeo.
Gli anni racchiusi tra queste due date-spartiacque sono prima di ogni altra cosa uno stato d’animo che accomuna tutto il Vecchio Continente sovrano e libero delle grandi potenze e degli sterminati imperi coloniali, ciecamente convinto della sua inesauribile ricchezza economica e culturale.
Anni frenetici, scanditi dai ritmi del cancan, del valzer viennese, dello scandaloso tango argentino. Affollati di signori che parlano francese, si vestono a Londra, esibiscono il monocolo prussiano e di signore che impazziscono per le ultime novità della moda parigina. Racchiusi nei tratti stilizzati dell’art nouveau.
Anni di euforia, di ottimismo sul presente, di fiducia in un futuro di irreversibile progresso, anni nei quali l’unico problema appare quello di vivere intensamente ogni istante, in bilico tra inflessibili etichette e sconfinate spregiudicatezze, tra sorrisi stereotipati e finzioni convenzionali.
La vita oziosa ed elegante dell’internazionale dei piaceri si consuma nei salotti, nelle fantasmagoriche atmosfere dei locali pubblici, negli ambienti raffinati dei grandi hotel, dei treni e dei transatlantici di lusso, delle stazioni turistiche più in voga.
Le esistenze si sviluppano su livelli ben distinti. Alla dolce vita, prerogativa di un numero molto limitato di privilegiati, continua a contrapporsi la lotta quotidiana per la sopravvivenza combattuta dalla grande maggioranza della popolazione.
Parigi, Vienna e, in misura minore, Londra e Berlino sono gli abbaglianti fuochi culturali di un impero di cui l’Italia continua a rimanere periferia. Ma anche il nostro paese si lascia contagiare dalla ventata di tranquilla sicurezza che percorre l’Europa, anche perché la belle époque ha come sfondo l’Italia giolittiana, nel corso della quale si accelera una rivoluzione industriale che comporta una serie di profondi sconvolgimenti di natura economica, sociale e culturale.
Nella terra delle cento città e dei mille campanili ogni porzione di territorio partecipa a questo slancio impetuoso con modalità e con intensità diverse.
Concentriamoci sulla Lombardia, regione che concentra all’incirca un quarto dell’apparato produttivo, proponendosi come vera e propria locomotiva dell’economia nazionale.
Milano, la più europea delle città italiane, è anche la più sollecita nel catturare, rielaborare, diffondere le onde dell’innovazione.
Capitale dell’informazione, della cultura, dei consumi, laboratorio del mondo nuovo, emana il senso dell’opulenza, il profumo dell’eleganza, la smania del divertimento.
Le vie rischiarate dall’illuminazione elettrica e tappezzate di cartelloni pubblicitari sono percorse da mastodontiche automobili e da tram sferraglianti.
I padiglioni delle grandi esposizioni e le vetrine del centro esibiscono invenzioni e merci di ogni tipo.
La crema della società passeggia nel salotto della città, la Galleria, si dà appuntamento nei caffè, nei ristoranti, nei teatri, nei locali di varietà.
Le attività motorie si adeguano a questi scenari in continua trasformazione. Lo sport, uscito da poco dall’infanzia, è definito per categorie secondo ceti sociali che tracciano circuiti paralleli in cui rare sono le intromissioni e le contaminazioni. Come a bordo del Titanic, la metafora più rappresentativa del tragico destino di una umanità persuasa della perennità della congiuntura favorevole, lo sport viaggia in classi rigidamente separate.
Il mondo contadino rimane tenacemente aggrappato ai suoi svaghi tradizionale, i giochi con la palla e le bocce.
I ceti subalterni, in modo attivo o nelle vesti di semplici spettatori, si dedicano a discipline che richiedono un equipaggiamento elementare, gusto della sfida, spirito di sacrificio, un impegno muscolare che sembra prolungare i ritmi massacranti dell’attività lavorativa.
A calamitare la passione popolare, offrendo nel contempo ai campioni insostituibili occasioni di riscatto sociale e di fuoriuscita dalle ristrettezze economiche sono il ciclismo, primo autentico sport nazionale, il podismo, la lotta, il sollevamento pesi.
La piccola e la media borghesia, strati compositi di frontiera tra la base proletaria e le oligarchie, rimangono incerte tra la smania di imitare i prestigiosi modelli di svago delle classi superiori e la ricerca di forme autonome di pratica, individuate nella ginnastica, nel calcio, nel canottaggio, nel nuoto, nel pugilato.
In prima classe viaggia, circondata da comodità di ogni tipo, una cerchia ristretta in cui si integrano una nobiltà di sangue dinamica e cosmopolita e le dinastie rampanti degli esponenti del mondo degli affari.
Riunite in circoli prestigiosi, assorbite in attività in cui sulle esasperazioni agonistiche prevalgono gli aspetti mondani, le élites presidiano con puntiglio ogni spazio di socialità, venendo a formare una sorta di cerchio magico di notabili che ricoprono a lungo molteplici cariche direttive in ogni settore delle attività ludiche e sportive.
Vale la pena soffermarci su quest’ultimo spazio sociale, ampiamente minoritario rispetto alla diffusione reale delle pratiche e dei gusti, ma pienamente rappresentativo dello spirito della belle époque.
E’ un mondo piccolo, dove tutti si conoscono e dove implacabilmente gli stessi sono i nomi riportati con minuzia in interminabili elenchi: perché l’importante qui non è tanto scendere in gara, ma presenziare.
E’ un mondo a parte, che trova solo due forme di comunicazione con il mondo circostante: lo sfruttamento dei beni e dei servizi offerti dai salariati dello sport (fabbricanti, commercianti, maestri, addetti ai lavori) e la messa in scena del proprio sfarzo, sotto gli sguardi invidiosi dei borghesi che vorrebbero ma non possono e quelli attoniti del volgo profano che si gode lo spettacolo.
E’ un mondo inaccessibile che si garantisce contro ogni rischio di sgradite intromissioni attivando rigidi meccanismi di accesso alle associazioni e la richiesta di astronomiche quote di affiliazione, oscillanti tra le cinquanta e le centocinquanta lire annue, l’equivalente dello stipendio mensile di un impiegato e del guadagno trimestrale di un operaio.
E’ un mondo duttile, pronto a ritirarsi fulmineamente dai territori a rischio di democratizzazione, come il ciclismo ed il calcio dei primordi, per arroccarsi nei ridotti degli sport invernali e motoristici.
E’ un mondo in incessante movimento che segue rotte migratorie precisate da scadenze stagionali, tra la Costa Azzurra, i centri termali più rinomati, le località poste sulle rive dei laghi, le prestigiose stazioni invernali della Svizzera.
Recuperare un accredito che consenta un comodo accesso a questo mondo a parte è tutt’altro che semplice. Bisogna armarsi di pazienza e di sfrontatezza, occorre dare una bella ripassata ai manuali del bon ton, serve una rinfrescata del proprio guardaroba per scoprire ad uno ad uno i nascondigli dei vip.
Quale soluzione migliore che trasformarsi in cronisti della elegantissima “Cronaca d’oro. Rivista dell’alta società”, pubblicata dal 1910 a Milano? Issati a bordo di una impeccabile Isotta Fraschini modello B, siamo pronti a cominciare il nostro piccolo giro della Lombardia sportiva che conta.
La prima tappa ci porta diritto ad uno dei santuari dello sport italiano, la brughiera di Montichiari, collocata tra Brescia e Mantova, regno della velocità, dell’altezza, dei motori rombanti, miti prediletti dalla sensibilità dell’epoca.
Qui, dal settembre del 1905, è in funzione il primo circuito automobilistico realizzato nel Bel Paese, luogo di svolgimento di competizioni di richiamo europeo come la Coppa Florio, e punto di raduno dei soci degli esclusivi club motoristici, fieri dei loro giocattoli di lusso, avvolti in pellicce d’orso, resi irriconoscibili dalle maschere e dagli occhialoni. Qui, nel settembre del 1909, ha luogo il Circuito Aereo Internazionale, prima ribalta delle spericolate evoluzioni dei nuovi titani lanciati alla conquista dei cieli, primi attori di uno spettacolo reso morbosamente attraente dai rischi che ne accompagnano la messa in scena. Sulle tribune, mescolati all’alta società al gran completo, guardano all’insù D’Annunzio, Puccini, Kafka.
Brescia è appena dietro l’angolo. Guidati dall’eco delle detonazioni raggiungiamo l’area di Canton Mombello, ricavata dall’abbattimento delle antiche mura veneziane ad accogliere uno dei maggiori stand di tiro a volo in Italia, teatro delle imprese degli infallibili cecchini locali.
Il tiro a volo della belle époque ha poco a che spartire con quello odierno, ipertecnologico e accesamente agonistico. E’ uno svago costoso (i fucili inglesi di precisione sono carissimi e un piccione – si spara quasi esclusivamente a bersagli vivi – costa due lire, la paga giornaliera di un operaio) che tra una stagione di caccia e l’altra richiama in confortevoli impianti permanenti e nei parchi delle ville di delizia una eletta schiera di sportsmen e di dame nelle vesti di spettatrici e di madrine.
Ed ora su per l’interminabile Valcamonica fino ad avvistare Ponte di Legno, che le guide turistiche dell’epoca etichettano ottimisticamente come “prima stazione italiana di sport invernali”. I ripidi pendii invitano al brivido del bobsleigh, dello skeleton, dello slittino, gli spazi pianeggianti sono percorsi dagli amanti del placido ski-kjoring, agganciati ad una slitta tirata da cavalli.
E’ un espediente che trova una logica spiegazione nelle fatiche venate di masochismo che richiede la pratica dello sci: piste non battute, l’assenza di impianti di risalita che costringe a faticose ascensioni a lisca di pesce cui fanno seguito brevissime discese, attrezzi ingombranti e insicuri, abbigliamento che opprime senza riscaldare. In questo caso le élites optano per una attitudine contemplativa che si rafforza tra un punchino e l’altro.
La fedele Isotta si arrampica tossicchiando sul passo dell’Aprica per condurci in Valtellina, paradiso della caccia ai grandi ungulati, della pesca alla trota, dell’alpinismo.
Un alpinismo generato da nobili lombi (i primi esploratori italiani dell’Adamello, del Bernina, del Disgrazia appartengono tutti all’aristocrazia milanese) che sta inesorabilmente mutando pelle. Alle interminabili ascensioni in cordata imprescindibili dal supporto di guide ingaggiate per la modica cifra di cento lire e di malcapitati portatori oberati di scale in legno, di strumenti scientifici, di casse di cibarie e di bevande stanno subentrando le audaci imprese messe a segno da una nuova e più agguerrita generazione di scalatori.
Di gran carriera iniziamo la lunga discesa che ci porterà nel cuore stesso del distretto dei piaceri mondani, collocato tra l’area comasca e quella varesina.
Como e Carate Lario sono le capitali degli sport nautici.
Il Regate Club sul lago di Como è il presidio dei cultori della vela, lo sport delle teste coronate, dei titolati, dei nuovi ricchi. I commodori e i soci, indossando giacche e pantaloni turchini, gilet bianchi, berretti alla marinara, alternano blande regate e sfarzosi ricevimenti.
All’Elice Club Italiano di Carate fanno capo gli amatori delle rumorose emozioni della motonautica.
Prima di toccare Varese è d’obbligo una breve sosta sulle rive del piccolo lago di Ghirla, che nei mesi invernali dà spazio alle incerte evoluzioni dei praticanti di un’altra icona dello sport della belle époque, il pattinaggio su ghiaccio: attività stagionale per necessità per carenza di impianti al coperto con refrigerazione artificiale e mondana per scelta, nella cornice delle patinoires sparse in ogni lembo della regione ad ospitare allegre feste in costume e rumorose gincane.
L’elegante architettura del Grand Hotel Excelsior di Varese accoglie una clientela sceltissima, destinataria di un ampio ventaglio di svaghi a cominciare dal golf, importato e giocato prevalentemente da turisti britannici.
Tra Varese e Milano si estende il vasto territorio coperto di brughiere che ha per centro Gallarate, terreno ideale per due pratiche esclusive per eccellenza.
Il possesso di cani di razza è prerogativa dei gentiluomini anglofili affiliati al Kennel Club, che adibisce la zona allo svolgimento delle prove di cerca sul terreno.
Tra fossi, macchie e ciglioni galoppano in sella a cavalli irlandesi e preceduti dalle mute di segugi acquistati direttamente in Gran Bretagna gli azzimati cavalieri della Società Milanese per la Caccia a Cavallo che indossano una giubba rossa trapuntata di bottoni con la corona in stampo ad attestare il patrocinio del re.
A sostituire le volpi, che per loro fortuna latitano, provvedono cervi e daini fatti arrivare da molto lontano o addirittura semplici bigliettini di carta dei quali va seguita la traccia.
Ma in realtà i complicati rituali di caccia sono una messinscena che cela una intensa vita mondana cadenzata da manieristici raduni, assidui corteggiamenti delle romantiche amazzoni, animate feste serali.
Milano ci accoglie offrendoci un panorama ricchissimo di iniziative di ogni tipo. Completeremo qui il nostro viaggio con quattro omaggi reverenti ad altrettanti luoghi di culto. La prima è una delle numerose sale di scherma che hanno sede nelle vie del centro: ambienti elegantissimi (la sala della Società del Giardino è costata la bellezza di 25.000 lire!) nei quali celebrati maestri istruiscono nella scienza delle armi e preparano alla non tanto remota eventualità del duello il fior fiore della nobiltà meneghina.
In via Vivaio il vasto salone del Veloce Club, una delle più antiche società ciclistiche italiane, è il tempio del pattinaggio a rotelle, fratello cadetto del pattinaggio su ghiaccio con il quale condivide la cornice mondana e le funzioni socializzanti.
Ai margini del parco Sempione sorgono gli impianti nei quali si pratica lo sportsimbolo della belle époque, il tennis degli eleganti e pacati gesti bianchi disegnati sui rossi campi in terra battuta, prodotto di lusso very british, ideale prolungamento dei garden-parties e dei tè delle cinque.
Inaugurato nel 1888 in un’area corrispondente all’attuale piazzale Lotto, l’ippodromo di San Siro vede affollarsi sulle tribune stuoli di dame che esibiscono spettacolari toilettes, attorno al recinto del peso, ai picchetti dei bookmakers, agli sportelli del totalizzatore gli allevatori, i proprietari, gli ippofili più incalliti, in attesa che la fiera della vanità trovi la sua apoteosi nel rientro in città delle carrozze tirate da quattro purosangue attaccati all’inglese.
Anche questo concorre a nascondere sotto un sottile strato di cenere le braci vive che ardono in un’ Europa inconsapevolmente adagiata su un autentico campo minato.
“Il futuro è una palla di cannone accesa e noi lo stiamo raggiungendo”, racconta un cantante un bel po’ poeta, quel Francesco De Gregori che in tre delle sue composizioni ci ha detto della belle époque più di cento libri di storia. Il cerchio si chiude con il ritorno alla metafora del Titanic.
A procedere pedalando, correndo, remando, nuotando verso i campi di battaglia della Grande Guerra saranno i componenti dell’equipaggio e i passeggeri di terza classe.
Gli imperturbabili signori protagonisti assoluti delle cronache d’oro, quelli che, per dirla con Wilfred Owen, si accingono a mandare al macello “metà del seme d’Europa, uno per uno”, viaggiano in prima classe, nella quale pochi furono gli imbarcati e tanti, tantissimi i superstiti.
Nella foto Wikipedia.org Il Circolo della Società del Giardino di Milano