dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) –  DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO

di Felice Fabrizio

LA GUERRA DI GINO

La ricreazione sta per finire. Nel cielo della patria battono le ore segnate dal destino. E lo sport ne segue ogni rintocco.

ll 5 maggio 1940 un ventunenne piemontese, Coppi Fausto, partito come gregario di Bartali, arriva a Milano in maglia rosa. 

Cinque giorni più tardi il popolo italiano corre alle armi.

Il futuro campionissimo segue la traiettoria dell’italiano comune. Né il successo nel Giro d’Italia né il prestigioso record mondiale dell’ora ottenuto per acquisire benemerenze nel novembre del 1942 in un Vigorelli circondato dalle macerie dei bombardamenti valgono ad evitare la partenza per il fronte africano.

Catturato dagli inglesi nell’aprile del 1943 e rinchiuso in un campo di concentramento tunisino, Coppi, sofferente per un’ulcera gastrica e affetto da un focolaio di malaria verrà rimpatriato alla fine del 1944 ed internato a Caserta.

Nel frattempo i Giri d’Italia di guerra e i circuiti locali mettono in scena una parvenza di normalità.

Giunge il trauma della caduta del fascismo. Il 25 luglio Renato Morandi, campione italiano di velocita su pista, guida per le strade di Varese un corteo di ciclisti festanti indossando la maglia tricolore. A Firenze il marchigiano Ubaldo Pugnaloni, dopo essersi imposta nel campionato italiano dei Giovani Fascisti, si accorge con stupore che le camicie nere sono sparite e, tra le ovazioni del pubblico, strappa dalla maglia i simboli del regime.

Le strade si separano dopo l’otto settembre.

Qualcuno, pochi, per la verità, imita il cuoco di Salò della canzone di De Gregori, che “qui si fa l’Italia e si muore dalla parte sbagliata”.

E’ il caso di Fiorenzo Magni, ciclista toscano di provata fede fascista, ultimo frazionista della Staffetta del Ventennale corsa nell’ottobre del 1942 da Predappio a Roma, imboscato nel battaglione olimpico di stanza a Roma, arruolato alla fine del 1943 nella Guardia Nazionale Repubblicana impegnata nella lotta antipartigiana, frequentatore della banda fiorentina del maggiore Carità, definita da Pietro Calamandrei “associazione a delinquere di volontari del delitto tenuti insieme dal gusto di appagare nello strazio degli innocenti la loro sadica volontà di ferocia”.

Nel gennaio del 1944 Magni partecipa al rastrellamento sul monte Valibona, nelle vicinanze di Prato, in cui troverà la morte Lanciotto Ballerini, comandante di una piccola formazione partigiana collegata al Partito d’Azione.

Il ruolo di Magni, che, per evitare rappresaglie, si è tempestivamente rifugiato a Monza, non sarà mai completamente chiarito. L’inchiesta aperta nel dicembre del 1945 sfocerà in un processo chiusosi nel febbraio del 1947 con una sentenza che eviterà al ciclista toscano la condanna a trent’anni per collaborazionismo in virtù dell’amnistia sui reati politici promulgata nel 1946 dal guardasigilli Palmiro Togliatti.

Decisiva risulterà la testimonianza favorevole a Magni di Alfredo Martini, rappresentante del ricco filone dei ciclisti che aderiscono alla resistenza per le cui vicende rimando al libro di Sergio Giuntini.

Gino Bartali

Nella sua singolarità, la guerra del soldato Bartali è emblematica della complessità delle vicende italiane nella fase convulsa che va dal 1943 al 1945.

Pur in odore di eresia, Gino è troppo celebre per subire la sorte di Coppi. Arruolato dapprima nei battaglioni territoriali con funzioni di portaordini in bicicletta, assegnato successivamente alla milizia stradale con tanto di camicia nera, il 25 luglio Bartali si dimette.

Considerato disertore, deve nascondersi per qualche tempo in Umbria prima di poter rientrare a Firenze.

Nel capoluogo toscano viene contattato dal cardinale Elia Dalla Costa, che gli prospetta due pericolosissime missioni: coadiuvare la Delegazione per l’Assistenza degli Emigrati Ebrei, che opera clandestinamente per nascondere i perseguitati nei conventi dell’Italia centrale; trasportare fotografie e documenti da Firenze ad Assisi, dove è in azione una tipografia che stampa carte di identità e lasciapassare contraffatti.

Nascondendo il materiale nel tubo del sellino Bartali effettua una quarantina di viaggi camuffati da sedute di allenamento, sfidando il rischio, se scoperto dai tedeschi, di essere fucilato sul posto.

E non è finita. Gino nasconde a Ponte a Ema una famiglia di ebrei fiumani e guida in salvo presso le formazioni partigiane un gruppo di militari inglesi.

Si cammina sul filo del rasoio. Nel 1944, con l’accusa di essere in contatto con il Vaticano per organizzare un traffico d’armi, Bartali è convocato dai torturatori della banda Carità, davanti ai quali si presenta esibendo il distintivo della GIAC e alle cui grinfie sfugge solo per l’intervento delle alte gerarchie ecclesiastiche fiorentine.

Alla fine del 1944, durante un’uscita di allenamento, è bloccato da una banda di partigiani comunisti che, imputandogli di avere indossato la divisa fascista, minacciano di giustiziarlo. A salvarlo sarà Primo Volpi, futuro campioncino e partigiano sul Monte Amiata.

Certe cose si fanno e non si dicono“, affermerà Bartali motivando un silenzio mantenuto sulle sue benemerenze che è stato rotto solo da qualche anno.

IL CROCIATO

E’ un silenzio tanto più sorprendente se si considera che il Bartali del secondo dopoguerra, spigoloso, temprato dalle avversità, precocemente invecchiato, appare un lontano parente di quello degli anni Trenta. Beve, fuma, gioca a carte, smoccola, assume un piglio baldanzoso che lo mette in contrasto con l’universo mondo, attribuisce ogni insuccesso al destino cinico e baro, parla, parla, parla.

In queste nuove vesti Gino Bartali acquista un rilievo storico di straordinaria importanza per almeno tre motivi.

Come figura di confine tra il vecchio e il nuovo che esemplifica una penetrante osservazione del grande studioso della rivoluzione russa Edward Carr: “la tensione fra gli opposti principi di continuità e di cambiamento è il fondamento della storia. Tutto ciò che sembra avvenire senza interruzione è sottoposto alla sottile erosione di un intimo mutamento. Nessun cambiamento, per quanto si manifesti in modo violento e brusco, segna d’altra parte una rottura completa col passato”.

Come soldato di una nuova crociata nel corso della quale transita dal ruolo di icona alternativa a quella di atleta di regime.

Come espressione di una tendenza tutta italiana che, rifuggendo dalle mezze tinte, divide ogni aspetto della vita sociale in due campi contrapposti. Andiamo per ordine.

Nella situazione di sbandamento che attanaglia il paese, gravida di potenziali vantaggi per le forze eversive, la chiesa, sbandierando benemerenze antifasciste reali e presunte, si pone come luogo di rifugio, di consolazione, di riconciliazione, come fattore di continuità culturale e strutturale, come asse portante dell’opera di ricostruzione.

Sono compiti impegnativi che le gerarchie ecclesiastiche affidano, più che al partito cattolico in via di formazione, alle organizzazioni di massa, a partire dall’Azione Cattolica.

La riaffermazione della presenza cristiana in ogni settore della vita quotidiana, che ha per ideologo Pio XII e per stratega il presidente dell’Unione Uomini di Azione Cattolica Luigi Gedda, coinvolge anche il mondo dello sport.

Tra il 1945 e il 1946 il papa si esprime ripetutamente al proposito, attingendo al linguaggio agonistico di San Paolo: “ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa non per guadagnare un premio corruttibile, ma con la speranza di una corona imperitura”.

A questa impostazione la maschera aggressiva ed invadente di Bartali risulta pienamente funzionale.

Gino e uno dei “gagliardi che hanno combattuto col petto decorato di medaglie”. E’ un marito e un padre esemplare. E’ l’uomo di ferro la cui straordinaria longevità atletica ha per segreto l’austerità di vita ed una fede profonda. 

Gino Bartali

Novello crociato, diviene il modello del perfetto militante cattolico che alterna preghiera, frequenza alle funzioni religiose, testimonianza nel mondo del lavoro, propaganda nei periodi elettorali e che, all’occorrenza, è capace di “dare qualche solida lezione agli avversari politici”.

Non a caso sfuma all’ultimo momento la realizzazione di una torrenziale pellicola sul ciclista toscano commissionata a Romolo Marcellini, regista del polpettone agiograiico sulla vita di Pio XII “Pastor Angelicus”.

La consacrazione arriva comunque ed é assolutamente clamorosa.

Il sette settembre 1947, per celebrare il venticinquesimo anniversario di fondazione dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, 200.000 iscritti affollano piazza San Pietro per ascoltare l’allocuzione pontificia passata alla storia come “discorso dell’arcobaleno”.

Avviandosi alla conclusione, Pio XII si rivolge in questi termini alla folla oceanica: 

il tempo della riflessione e dei progetti è finito. Ora viene il tempo dell’azione. Anche pochi istanti possono decidere della vittoria. Siete pronti? Guardate il vostro Gino Bartali, membro come voi dell’Azione Cattolica (per inciso, a 35 anni Gino appartiene ancora alla GIAC, un anacronismo cui solo nel gennaio del 1948 metterà termine Gedda con la consegna del distintivo degli Uomini di Azione Cattolica). Egli ha piu volte guadagnato l’ambita maglia gialla. Correte anche voi in questo campionato ideale“.

Mentre l’entusiasmo si trasforma in delirio, i vaticanisti si guardano allibiti: mai in passato un pontefice aveva formulato un riferimento pubblico a un personaggio vivente, tanto più se operante in campo profano.

Un popolo di otto milioni di biciclette sta completando il suo addestramento sotto la guida del generale Bartali“, ironizza il “Don Basilio. Settimanale satirico contro tutte le parrocchie”. E a quanti in campo cattolico segnalano il rischio di una totale confusione di valori si obietta che anche Bartali, come Dante, Manzoni e Marconi, rientra a pieno titolo nel novero dei campioni che hanno applicato la ginnastica della mente all’ordine spirituale come a quello fisico.

L’apoteosi del “generale Bartali” si completerà di lì a due mesi con il conferimento della croce di cavaliere dell’ordine di San Silvestro, avvenuta nel corso di una solenne cerimonia alla quale presenziano Giulio Andreotti, il presidente dell’Azione Cattolica Veronesi, il sindaco di Roma Rebecchini, il presidente del CONI Giulio Onesti.

Le formule di facciata che affermano l’apoliticità dello sport, terreno neutro dove possono incontrarsi uomini delle più diverse idee, sono dunque puntualmente smentite dai fatti.

ll fascismo, di cui si critica in un sol coro l’uso a fini strumentali delle attività motorie, è stato un maestro che ha lasciato il segno.

L’Azione Cattolica, sin dal 1944, si è affrettata a costituire il Centro Sportivo Italiano e la Federazione Associazioni Ricreative Italiane che, superando la tradizionale visione separatista, trattano da pari a pari con il CONI, le federazioni sportive, la scuola, acquisendo benemerenze e concreti riconoscimenti.

Nelle sue diverse articolazioni il movimento cattolico controlla la proprietà de “La Gazzetta dello Sport”, l’organizzazione del Giro d’Italia, la gestione della SISAL.

A loro volta i partiti di sinistra hanno iniziato a leggere lo sport come fenomeno di massa assimilabile alle grandi istituzioni che mediano il sistema delle relazioni politiche e sociali.

La nascita del Fronte della Gioventù e dell’Unione Italiana Sport Popolare destano viva preoccupazione negli ambienti cattolici, che la interpretano come segnale di una volontà di penetrazione nel feudo sportivo.

Addirittura alla partenza del Giro del 1946 si allineano la squadra dei “soldati sportivi di Cristo” del CSI e una rappresentativa in maglia tricolore del Fronte della Gioventù.

In un paese devastato di povera gente per la quale vivere è quotidiana arte di arrangiarsi sarà proprio il ciclismo a dimostrarsi capace di produrre e di moltiplicare energie positive, di comporre favole meravigliose che agganciano i sentimenti popolari, di delineare contrapposizioni nette e forti tra personalità distinte che alimentano meccanismi di identificazione totale.

La rivalità sportiva è metafora della contrapposizione radicale che attraversa il paese, grossolanamente delineata in termini propagandistici come scontro che oppone moderatismo, umanesimo, libertà, stabilità, Cristo a progressismo, totalitarismo, schiavitù, salto nel buio, Drago Infernale.

Il vertice della tensione coincide con le epocali elezioni politiche del 18 aprile 1948, in netta rottura con tutte le esperienze precedenti per vastità e intensità della mobilitazione e per la pluralità dei mezzi utilizzati, le forze cattoliche raggruppate attorno alle parrocchie, alla Democrazia Cristiana di De Gasperi, ai Comitati Civici promossi da Gedda, sconfiggerà nettamente il Fronte Democratico per la Libertà, la Pace e il Lavoro.

Su questo sfondo si collocano le origini e lo sviluppo di un dualismo che ha fatto versare fiumi di inchiostro, quello tra Coppi e Bartali, elaborato in modo sistematico e coerente attorno alla figura di Bartali.

La fede e la militanza politica di Ginettaccio sono costruite sulla roccia. L’umanità appartata di Coppi, da sempre di problematica decifrazione, consente invece una declinazione in negativo del personaggio.

Se Bartali, secondo la definizione coniata da Indro Montanelli, è “il De Gasperi del ciclismo (Gino e Alcide si sono conosciuti e piaciuti a prima vista già negli Anni Trenta), da nessuno amato, da tutti temuto, che segue nel pedalare i calcoli pazienti e tenaci a cui lo statista trentino si ispira per governare”, Coppi non può che essere identificato con lo schieramento opposto: e sicuramente comunista e i suoi successi su Bartali rappresentano altrettante sconfitte dei “clericociclisti”.

Ogni minimo indizio schiude spiragli di speranza. “Per un certo periodo di sbandamento, Coppi ha gravitato nell’orbita del cielo sinistro“, lamenta l’autorevole “Osservatore Romano”. Togliatti è uno dei suoi più accesi sostenitori. “L’Unità ” pubblica una sua foto con dedica. Nel 1947 Coppi offre la sua consulenza tecnica al Fronte della Gioventù per la selezione della rappresentativa da inviare al Festival Mondiale della Gioventù.

Ma per i proletari senza rivoluzione si tratta dell’ennesima beffa.

Non sono comunista”, afferma solennemente nel corso di una visita alla redazione del quotidiano clericale “L’Italia” Fausto, che ha ricevuto una educazione cattolica e ha maturato una fede vissuta come fatto privato senza alcuna ostentazione.

Nel 1947 la rivista del CSI “Stadium” appone ad una sua fotografia il seguente commento: “Il Campionissimo condivide pienamente gli ideali della nostra associazione e aderisce ben volentieri al nostro movimento“.

Nello stesso anno, dopo aver ricevuto da Gedda una medaglia d’argento del pontificato, viene ricevuto in udienza da Pio XII.

Nel 1948, assieme a Bartali, al fratello Serse e ad altri sei assi del pedale, Coppi è tra i firmatari di un “Appello agli sportivi d’Italia” redatto a cura dei Comitati Civici di Gedda, il cui testo è inequivocabile: 

Al culmine della grande battaglia elettorale noi, uomini del pedale, non per spirito di parte, ma per l’amore che portiamo alla nostra Italia, ricordiamo a tutti gli amici il richiamo che il Santo Padre, nel giorno di Pasqua, ha lanciato al popolo italiano:” la grande ora della coscienza cristiana e suonata“. Chi non ha rinunciato alla Fede dei padri e non vuol rinnegare la Madre Italia raccolga il monito del capo della Chiesa e lo traduca in atto compiendo coscienziosamente il dovere civico cui la Patria lo chiama. Viva l’Italia!”.

Coppi declina senza esitazioni la proposta di candidatura per il Partito Comunista nel collegio di Genova, dichiarandosi invece disposto a presentarsi nelle liste della Democrazia Cristiana se lo farà anche Bartali, che però si chiama fuori. Il 18 aprile vota per lo scudo crociato.

Ma le illusioni sono dure a morire.

La rivalità tra Bartali e Coppi è un gioco stupendo in grado di far dimenticare le italiche brutture. I ritratti dei due campioni occhieggiano dalle pareti dei locali pubblici, dalle copertine delle riviste. La loro apparizione sugli schermi dei cinegiornali provoca ovazioni e bordate di fischi. I loro nomi riempiono muri, striscioni, cartelli. Folle impazzite circondano le strade e gli alberghi, travolgono i cordoni di polizia, discutono, si insultano, sciolgono voti, scommettono. Il tifo ha delle ragioni che la ragione non può comprendere. Peppone, udite udite, e un bartaliano di ferro. Don Camillo tiene a Coppi perché non sopporta “il cammello Bartali” e ritiene che chi crede in lui sia “una zucca piena di semi di girasole”.

Un uomo per tutte le stagioni come Curzio Malaparte sposta il confronto tra i due mattatori addirittura sul piano antropologico, indicando in Bartali il figlio dell’Italia profonda, della tradizione immutabile, di un ciclismo antico, in Coppi il prodotto del progresso, del credo materialista di un mondo nuovo, del ciclismo di robot nelle cui vene scorrono benzina e additivi.

Qualche anno più tardi un grande critico letterario, Geno Pampaloni, collocherà Bartali lungo la  “linea calda” dello sport italiano, quella improntata all’ardimento e all’eccitazione agonistica, in contrapposizione alla “linea fredda” di Coppi, in cui si sommano misura, calcolo, intelligenza stilistica.

Ai traguardi di tappa Coppi e omaggiato di mazzi di garofani rossi da militanti comunisti che smaniano anche per i ” compagni ” Giancarlo Astrua, Renzo Zanazzi, Oreste Conti, Alfredo Martini e per Vito Ortelli, aggredito ad Udine da nazionalisti giuliani.

Bartali, per il quale “trecentomila preti si spendono per ottenere dagli dei la vittoria dell’Arcangelo del Pedale, è apostrofato come “falso prete” da un malcapitato tifoso di Fausto, che per tutta risposta riceve una cristianissima serie di pugni.

A complicare il quadro delle implicazioni politiche, nel Giro d’Italia del 1948 balza alla ribalta il “terzo uomo”, Magni, riammesso un anno prima nel gruppo.

Nella tappa che si conclude a Trento Magni è penalizzato di due minuti per “spinte a carattere preordinato” ricevute sul Pordoi, spinte che “L’Unità” attribuisce a “scalmanati avanzi di galera, campioni della teppaglia fascista, collaborazionisti scaglionati lungo tutto il percorso”. 

Lo sport, afferma il poeta Alfonso Gatto, inviato del giornale del PCI al seguito della corsa, “non obbliga a convivere con un uomo che la giustizia ha ritenuto flagrantemente colpevole, pur non trovando nel codice il massimo della pena per lui“.

Coppi si ritira in segno di protesta per l’esiguità delle sanzioni adottate e Fiorenzo, ossequiato a Fiuggi da uno dei leader delle forze neofasciste in via di ricostituzione, Giorgio Almirante, cui dichiara che “la Patria e il tricolore sono stati punti fermi di tutta la mia esistenza”, si avvia verso la vittoria finale.

Non senza problemi. Le ultime due tappe si trasformano in un incubo. Mentre la carovana si dirige verso Brescia la macchina de “L’Unita”, sulla quale trova posto l’ex partigiano Attilio Camoriano, precede i corridori annunciando al megafono: “Sportivi, sta arrivando il gruppo dove c’e la maglia rosa del fascismo Fiorenzo Magni”. Al Vigorelli Magni, che si aggiudica l’ultima frazione, è accolto da un uragano di fischi e di insulti e dal lancio di cuscini, monetine e cartacce. (continua)

Foto tratte da greenme.it

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