dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) –  LO SPORT NEI TOTALITARISMI E LA SHOAH

di Sergio Giuntini

Nonostante le vere intenzioni del nazionalsocialismo tedesco rispetto ad antisemitismo e razzismo fossero (o avrebbero dovuto essere) ai contemporanei già sufficientemente chiare, i Giochi olimpici di Berlino non solo ebbero uno svolgimento regolare ma divennero una delle massime celebrazioni del III Reich hitleriano. Da cosa derivò tutto questo? Che ragioni permisero alle Olimpiadi di Adolf Hitler di ottenere il lasciapassare delle democrazie liberali? Perché, interrogato il 27 agosto 1936 da André Lang de Le Journal, Pierre De Coubertin si espresse con questi toni entusiastici: 

“Quali Giochi sfigurati, quale ideale olimpico sacrificato alla propaganda? E’ assolutamente falso! La grandiosa riuscita dei Giochi di Berlino è magnificamente servita all’olimpismo”.

A domande siffatte si può rispondere esclusivamente con argomenti d’ordine politico. 

Nel biennio 1935-36 la Germania impresse una decisa accelerazione alla sua iniziativa interna ed estera (denuncia del trattato di Versailles, rimilitarizzazione della Renania, introduzione del servizio militare obbligatorio, emanazione delle leggi razziali di Norimberga,ecc.), attrezzandosi materialmente e psicologicamente alla conquista del suo “spazio vitale”. Eppure il mondo libero non sembrò o non volle accorgersi di niente. Ovvero ritenne il nazismo il minore dei mali. Semmai una solida roccaforte contro il “fantasma” del comunismo sovietico che s’aggirava per l’Europa. Tale, la spiegazione primaria dell’”appeasement” politico-diplomatico di quegli anni, e, nella circostanza, della “realpolitik” estesa all’agone olimpico.

Tra debolezze e ammiccamenti, prevalse la linea morbida dell’acquiescenza: in un certo qual modo Berlino ’36 costituì la prova generale della Conferenza di Monaco di Baviera del 29-30 settembre 1938.

In appena ventiquattro mesi, la Germania, con la mediazione di Benito Mussolini, incassò per ben due volte una facile fiducia da Francia e Inghilterra. Le venne concesso di annettersi liberamente i Sudeti, premessa all’occupazione dell’intera Cecoslovacchia nel marzo 1939. Sarebbe tuttavia ingeneroso fermarsi qui. Ignorare alcune altre dinamiche che interessarono in particolare i Giochi olimpici. Al riguardo si è sempre sostenuto che, nei loro confronti, si ebbe una sostanziale assenza d’opposizione. Questo in realtà è vero solo in parte, nasconde un retroterra assai più complesso e mosso. E pertanto, è necessario rivalutare appieno i diversi e più robusti tentativi di boicottaggio che quelle Olimpiadi suscitarono. Riportare alla memoria il dibattito, le acute divisioni, gli errori e le contraddizioni che quei Giochi germanici determinarono all’interno dell’opinione pubblica mondiale, tra i governi e in seno ai partiti, alle istituzioni politiche e sportive. Le battaglie civili e politiche condotte dall’antifascismo internazionale – dall’Europa al nord America – al fine d’impedire che il Fuhrer potesse trarre da quell’evento un’irresponsabile legittimazione, furono in questo senso tutt’altro che puramente simboliche o testimoniali.

Un segnale importante fu il riavvicinamento tra le “due sinistre” dello sport.

Nella strategia dei “fronti popolari”, superando i contrasti ideologici tra “riformisti” e “rivoluzionari” che ne avevano impedito l’unità d’azione, il 6 settembre 1935 Internazionale Sportiva socialdemocratica di Lucerna e “Sportintern” siglarono a Praga un accordo che incitava i lavoratori al boicottaggio dei Giochi invernali di Garmish Partenkirchen e di quelli estivi nella capitale del III Reich.

In Olanda le proteste democratiche culminarono nell’agosto 1936, ad Amsterdam, in un ciclo di meeting di protesta e in una mostra su “L’Olimpiade sotto le dittature”. In Svezia, su 700.000 iscritti ai sindacati, 150.000 si dichiararono avversi ai Giochi affidati alla Germania di Hitler. Tuttavia il partito di governo, nel suo Congresso svolto nell’aprile ’36, non ne tenne alcun conto, e tra coloro che più si attivarono per la partecipazione spiccava Sigfrid Edstrom. Il fondatore e presidente dell’”International Amateur Athletic Federation”(IAAF) e, dal 1931, vice-presidente del CIO. 

Edstrom il quale, in un suo scritto del 1934, aveva sostenuto che l’atteggiamento antiebraico dei tedeschi si giustificava con il monopolio che questa minoranza deteneva in diversi settori-chiave dell’economia, e che la Germania, per conservare la propria identità, si vedeva assolutamente costretta a limitarne l’influenza. A continuare a perorare la necessità del boicottaggio fu il movimento sportivo operaio (AIF). Movimento che a Stoccolma nell’estate 1935, durante la partita di calcio Svezia-Germania, promosse una grossa manifestazione con diffusione di volantini e lancio di palloncini antinazisti. Il fronte favorevole al boicottaggio crebbe in coincidenza dell’invasione della zona renana, e si articolò intorno alla richiesta di liberazione dei cittadini svedesi ErikJansson e Knut Mineur, arrestati dalla Gestapo ad Amburgo in quanto accusati di voler introdurre nel Paese del materiale sovversivo. In loro difesa si formò uno specifico comitato di lotta, e a esso aderirono anche 6 calciatori della nazionale che, a titolo individuale, decisero di rinunciare all’Olimpiade berlinese. 

Diverse le reazioni che si ebbero nel Regno Unito. Qui, specie il fascismo, godette di un certo fascino. Winston Churcill fu un ammiratore di Benito Mussolini e Osvald Mosley, ondivago exdeputato conservatore, indipendente, laburista, nel 1932 fondò l’Unione fascista britannica. 

Schierati per il no alle Olimpiadi il conservatore Cocker Lampson, il quale – a titolo personale – si spinse a chiedere il taglio dei fondi per lo sport e il blocco dei passaporti tedeschi alle frontiere e, logicamente, le “Trade Unions”. 

Il sindacato laburistache, nel 1936, diede alle stampe il pamphlet Under the Heel of Hitler: the Dictatorship over Sport in Nazi Germany: atto d’accusa del suo dirigente Walter Mc Lennon. La neutralità espressa dal Comitato olimpico produsse la raccolta di numerosi fondi per sostenere le spese della delegazione inglese a Berlino e, un ruolo non secondario a favore di tale scelta, giocò la figura di Harold Abrahams. Campione olimpico sui 100 m. ai Giochi olimpici di Parigi (1924), membro della Commissione tecnica della IAAF (con Edstrom, Avery Brundage, Billy Holt, Bo Eklund), commentatore radiofonico della BBC, presidente dell’”Associazione Atletica Ebraica”, Abrahamsnel 1934 si convertì dall’ebraismo al cattolicesimo, ammorbidendo con il suo esempio i sentimenti ostili al nazismo. Questo genere d’accondiscendenza si manifesterà peraltro nuovamente anche dopo le Olimpiadi. Nell’incontro Germania-Inghilterra giocato a Berlino il 14 maggio 1938,i calciatori di Sua Maestà, in segno d’amicizia e rispetto, salutarono quelli tedeschi con il braccio teso. Un gesto che, come è stato notato da Simon Kuper, “è diventato il simbolo delle eccessive concessioni fatte da Neville Chamberlain alla Germania”. 

A una soluzione di dubbio compromesso, intrecciandosi con i destini dell’”Olympiada Popular” contro-convocata a Barcellona, si piegò anche la Francia. Paese nel quale, pure, nel 1933 il vice-presidente della Camera aveva invitato il Comitato olimpico nazionale al boicottaggio, e dove, dal 4 giugno 1936, era al potere una coalizione di “fronte popolare”. Se la logica del 

“frontismo” applicato allo sport  aveva condotto a Grange aux Belles, il 24 dicembre 1934, alla fusione tra “Federazione Sportiva del Lavoro” (comunista) e “Unione delle Società Sportive e Ginniche del Lavoro” (socialista), dando vita a un’unitaria “Federazione Sportiva e Ginnica del Lavoro”(FSGT) presieduta da Auguste Delaune e contraria ai Giochi tedeschi, per intanto permanevano le decisioni assunte dai precedenti governi. E’ a dire il progetto di legge – presentato il 14 giugno 1934 dal deputato Jammy Schmidt – per il sovvenzionamento della trasferta, che senza interventi critici il 22 e 30 giugno ’34 superò il vaglio di Camera e Senato della Repubblica.

Solo con la creazione dell’FSGT emerse quindi un deciso fronte d’opposizione. Il suo organo d’informazioni, Sport, il 15 gennaio 1935 scriveva di quei Giochi: 

Essi rappresentano un’ottima opportunità per il signor Hitler e il suo governo d’inscenare una manifestazione propagandistica ove lo sport non occuperà certo il ruolo che gli riconosceva il barone De Coubertin quando presiedeva il CIO. 

E rilanciando la sua campagna, il 14 agosto 1935 Sport diramava il seguente invito a disertare Berlino:

Non un soldo, non un uomo per i Giochi olimpici di Berlino: questa è la parola d’ordine attorno alla quale debbono riunirsi tutti gli sportivi e tutti coloro che intendono ristabilire le libertà violate e soppresse nei paesi fascisti. E’ per la realizzazione di questo obiettivo che la FSGT prende l’iniziativa di una vasta protesta popolare al fine d’intraprendere un’azione vigorosa e perseverante contro la sfida lanciata a tutto il mondo dal fascismo hitleriano con la complicità dei governi della conservazione sociale e del CIO.

Sulla scorta di tale appello, trecento atleti francesi sottoscrissero un Manifesto rivolto ai “Veri Amici dello Sport” nel quale si sottolineavano i rischi connessi alle vicine Olimpiadi, e, il 17 dicembre 1935, nel corso della discussione sul bilancio dello Stato, l’onorevole socialista Jean Longuet denunciò apertamente la mistificazione berlinese:    

I Giochi olimpici del prossimo anno sono stati concepiti dai dirigenti attuali del Reich come un’apoteosi del regime nazista, di quel regime che, Voi lo sapete, ha cacciato dalla Germania i più prestigiosi esponenti del pensiero tedesco, che pretende, all’ombra d’un immenso drappo di croci uncinate di poter manovrare tutti gli sportivi del mondo […]. Il governo del Reich ha negato a una parte della sua popolazione la possibilità di prepararsi per i Giochi olimpici, poiché, secondo le sue concezioni, il diritto a partecipare alla competizione olimpica va di pari passo con il riconoscimento dell’ideologia nazionalsocialista […]. Con la Germania di Hitler, che proclama i suoi principi abietti, anche quando si tratta di sport, io credo che la Francia dei “Diritti dell’Uomo”, la Francia di Michelet, di Victor Hugo e Jaurés non deve aver niente in comune. E’ per questo che Noi chiediamo la soppressione del capitolo di spesa previsto dallo Stato per le squadre francesi da schierare ai Giochi di Berlino del 1936. 

Richiami a una nobile tradizione repubblicana che non mutarono i rapporti di forza nell’aula. La perorazione di Longuet fu respinta dal ministro alla Salute Pubblica Ernest Lafont, e dalla solido pacchetto di voti di Pierre Laval che, con 410 sì contro i 161 no espressi dai social-comunisti, confermò i 900.000 franchi previsti per la partecipazione olimpica. 

Tra i favorevoli al boicottaggio era anche Léo Lagrange, prossimo a divenire sottosegretario socialista allo “Sport e al Loisir” nel nuovo gabinetto di Léon Blum. Giusto i “giri di valzer” di Lagrange riassumono la posizione poco trasparente tenuta dal “fronte popolare” su questo tema. Di ritorno da una visita a Berlino nel marzo 1936, prima cioè d’assumere incarichi di governo, Lagrange si diceva convinto della necessità di astenersi dall’inviarvi atleti francesi. Ma da uomo di stato, dopo il Consiglio dei ministri del 19 giugno 1936, la sua posizione si rovesciò in questo instabile equilibrismo:

Così come non è la Germania bensì la sua capitale che organizza questi Giochi, allo stesso modo è il Comitato olimpico francese che risponde a quell’invito.  

Un trasformismo che seguiva a una grande “Conferenza Internazionale in Difesa dell’Idea Olimpica” svolta al “Palais Hotel” di Parigi il 6-7 giugno 1936, e preludeva al dibattimento parlamentare sui Giochi in calendario il 9 luglio 1936. A dar battaglia fu stavolta il comunista Florimond Bonte, che assimilò l’adesione alle competizioni a Berlino ad una “sorta di complicità con i carnefici”.

Affermazioni all’apparenza combattive, irriducibili, rintuzzate dal deputato moderato e componente del CIO François Pietri, per il quale non era “possibile che la Camera francese impedisse a dei giovani francesi di partecipare a una grande competizione internazionale solamente perché il regime interno e le particolari idee dei tedeschi non li convincevano”. Una stringente ragion di stato che, con l’astensione per disciplina di coalizione dei comunisti, prevalse nettamente. L’unico responso contrario venne infatti dal Pierre Mendés, che non venne così meno al proprio onore e alla dignità residua di due camere nelle quali i partiti di sinistra erano forze di maggioranza. A fronte d’un simile voltafaccia, per salvare il salvabile, il fragile e incerto “fronte popolare” di Blum affianco del finanziamento assicurato al Comitato olimpico nazionale proiettato verso Berlino, deliberò un ulteriore stanziamento compensatorio di 600.000 franchi a favore dell’”Olympiada Popular” – democratica e antifascista – barcellonese. Tutto e il contrario di tutto. Un “cerchiobottismo” reso ancor più ambiguo dalle rassicurazioni governative, giunte il 19 giugno 1936 nel delineare le linee di diplomazia estera, circa il fatto che nessun suo membro avrebbe presenziato a quell’Olimpiade.

In effetti un’altra promessa non mantenuta, poiché l’ambasciatore André François Poncet assistette alle diverse cerimonie ufficiali. In definitiva un’imbarazzante débacle per la “gauche”, che indusse il Partito Comunista (PCF) a una singolare forma di “autocritica”: i suoi militanti, il 31 luglio 1936, alla partenza della rappresentativa olimpica d’Oltralpe per la capitale tedesca, volantinarono contro quel viaggio tanto impopolare e sbagliato.

Iniziativa ormai inutile e sintomatica dell’impotenza politica e delle divaricazioni interne che affliggevano il “fronte popolare”. Per Hitler invece un successo insperato, che allontanava i rischi d’un significativo boicottaggio. 

Tali ipotesi contestatarie percorsero anche l’America settentrionale. In Canada a sospingere il movimento anti-Olimpiadi del ’36 fu il “Worker Sport Association”(WSA) in concorso con il “Congresso Ebraico Canadese”. Comunità ebraiche che diedero un vigoroso impulso pure all’acceso confronto che, intorno ai Giochi nazisti, si sviluppò negli Stati Uniti. Paese strategico, in cui la decisione sull’andare o meno a Berlino rimase in bilico fino all’ultimo, spaccando a metà il movimento sportivo e coinvolgendo  vari settori della società americana.

Fin dal maggio 1933 gli ebrei newyorkesi si mobilitarono contro le Olimpiadi hitleriane, e un’affollata manifestazione, il 3 dicembre 1935, si tenne al Madison Square Garden per esercitare una pressione sul congresso AAU del seguente 6 dicembre. Congresso preceduto dalla raccolta di 500.000 firme per il boicottaggio. 

Ad appoggiare questa tendenza erano lo scrittore Damon Runyon, i giornalisti John Kieran del NewYork Times, Ed Sullivan del New York Daily News. Parimenti avversi a quell’Olimpiade il governatore di New York, l’ ”American Federation of Labour”, il “National Council of the Methodist Church”, il periodico cattolico Commonweal,  la Federazione degli studenti in giornalismo e 41 accademici di 27 atenei, fra cui Alfred Hume e Frank Graham – presidenti delle Università del Missisipi e del Nord Carolina. Di contro, per il sì a Berlino, si posizionarono le potenti YMCA, “National Collegiate Athletic Association” (NCCA) e, persino, i migliori atleti di colore. Tra questi Jesse Owens, sottoscrittore d’un appello di Avery Brundage affinché gli USA non si allineassero al boicottaggio. Un atteggiamento stigmatizzato dal segretario della NAACP (“National Association for the Advancement of Colored People”) Walter White, che in un lettera del 4 dicembre 1935 condannò tale presa di posizione. 

Favorevole al boicottaggio “nero” delle Olimpiadi, viceversa la NAACP lo negò alle organizzazioni ebraiche americane allorché lo promossero per il match di pugilato del 19 giugno 1936 trai pesi massimi Joe Louis e l’ariano Max Schmeling. Schmeling che, in quel frangente, fu investito del compito di “ambasciatore” olimpico. In proposito, ha scritto David Margolick:

Così, all’inizio di dicembre del 1935, Schmeling era di nuovo a bordo del “Bremen” diretto a New York. Il suo obiettivo era firmare per un incontro con Louis o con Braddock, vedere Louis combattere contro Uzcudun e sistemare la posizione di Joe Jacobs. I nazisti gli diedero un’ulteriore missione: placare i persistenti timori riguardo a una discriminazione di neri ed ebrei durante i Giochi olimpici di Berlino del 1936, e quindi far rientrare la campagna americana di boicottaggio dei Giochi. Un assistente del ministro dello Sport del Reich chiese a Schmeling di “esercitare un’influenza positiva sulla gente giusta”, mentre il presidente del Comitato olimpico tedesco gli diede una lettera da portare alla sua controparte americana, Avery Brundage.  

La partita più tesa e politica si giocò ad ogni modo lungo l’asse Berlino-CIOAAU-USOC (Comitato olimpico americano). Rientrata l’estromissione di Theodor Lewald, il presidente pre-nazista del Comitato organizzatore che Hitler intendeva sostituire discendendo da una famiglia ebrea, simili controversie riaffiorarono nella riunione CIO di Vienna del 6 giugno1933.

Un’assise nella quale i componenti americani incalzarono e quelli tedeschi si limitarono a vaghe concessioni. Promesse e niente più, eppur tuttavia passata allo storia dello sport con l’enfasi altisonante di “patto di Vienna”. Formula che stava a significare l’accettazione da parte nazionalsocialista d’una qualche presenza olimpica ebraica a Berlino. 

Di quell’incontro viennese uno dei membri statunitensi del CIO,il generale Charles H. Scherril, riportò questa descrizione al rabbino di New York Stephen S. Wise:

E’ stato un tentativo difficile. Noi eravamo in sei nell’ Esecutivo e persino i miei colleghi inglesi hanno ritenuto di non interferire nelle questioni interne tedesche. La Germania si è mossa cautamente. Per prima cosa essi concessero che altre nazioni potessero portare ebrei in squadra; poi però al termine del confronto contattarono Berlino, dichiarando che non vi era possibilità di tornare sul problema degli ebrei tedeschi, ma lasciando uno spiraglio sul fatto che avrebbero cercato di seguire le nostre posizioni. Io ho ripreso l’argomento, insistendo sulla richiesta di spiegazioni circa la loro reale volontà di escluderli. E loro risposero che gli ebrei fino a quel momento non sarebbero stati esclusi. Tutta la nostra influenza fu usata per far prevalere la posizione USA. Alla fine accettarono, capirono che disponevamo dei voti necessari. 

Scherril – repubblicano newyorkese – continuerà a recitare un ruolo estremamente attivo nell’intera questione. E al riguardo è curioso evidenziarecome, al pari di Churcill, anch’egli non dissimulasse affatto le sue simpatie per Benito Mussolini. Lo considerava “un uomo di coraggio in un mondo di buoni a nulla”, e auspicava che anche gli Stati Uniti arrivassero ad avere un proprio Duce. Ciò non lo induceva peraltro a recedere sulle discriminazioni antiebraiche; e a riprova del consenso esistente su questo punto, alla convenzione AAU del 21 novembre 1933 tutti i delegati, con una sola eccezione, votarono la risoluzione di Gustav Town Kirby (ex presidente dell’AAU e tesoriere dell’USOC) che prevedeva il boicottaggio dei Giochi di Berlino qualora non fosse mutato l’atteggiamento verso gli ebrei. Una minaccia reale, che avrebbe potuto condizionare le opzioni anche di altri importanti stati. Da qui in avanti prenderanno perciò sempre più corpo le schermaglie diplomatiche e procedurali, le missioni esplorative, i carteggi pubblici e riservati, tesi a render meno incandescente il problema ebraico. Nodo cruciale che, machiavellicamente, i nazisti affrontarono illudendo i loro interlocutori critici, prendendo tempo, alternando flessibilità a improvvisi irrigidimenti.

Nella sessione CIO del maggio 1934 i delegati tedeschi ribadirono che alcuni atleti ebrei sarebbero stati inseriti nella rappresentativa olimpica della Germania. Dal numero iniziale di 21, nel giugno del ’34 Hans Von Tschammer und Osten scese a quota 5, e nel gennaio 1935 non si parlava più di partecipazioni. Bensì, 7  “probabili-olimpici” ebrei,  si videro inopinatamente scartati poiché le “loro prestazioni vennero giudicate inadeguate per la qualificazione ai Giochi”.

Nell’estate del ‘35, Hitler in persona fece circolare una sua lettera nella quale garantiva l’uguaglianza per i non-ariani alle prossime Olimpiadi. Atto di pura facciata, che, il 31luglio 1935, obbligò Karl Diem (con Lewald a capo dell’organizzazione olimpica) a smentire l’esistenza di difformità di vedute tra istituzioni sportive naziste e statunitensi. Divergenze che in realtà sussistevano, come dimostrato, nell’agosto ‘35, dalla proposta di ritiro degli USA avanzata da un alto dirigente sportivo quale Jeremiah Titus Mahoney -membro dell’USOC dal 1912,e dal ’35 neo-presidente dell’AAU -. E ancor più dall’udienza di un’ora che, il 24 agosto dello stesso anno, Scherril ottenne da Adolf Hitler onde concordare una presenza, perlomeno simbolica, di ebrei in seno alle nazionali del Reich.

Anche quest’approccio ebbe uno sbocco insoddisfacente. Il Fuhrer fu molto evasivo e generico, garantendo solo l’accoglienza degli ebrei appartenenti alle delegazioni estere. Scherril, chiese un gesto di “buona volontà”   facendo il nome della famosa schermidrice Helene Mayer, e obiettando inoltre che se la Germania avesse persistito in una simile direzione il CIO avrebbe potuto assumere delle gravi decisioni. 

E a sostegno di questo suo orientamento, il 30 agosto 1935 scrisse al presidente del CIO – il conte belga Henri de Baillet-Latour – esortandolo “a parlare direttamente con il Fuhrer e mostrargli la lettera che ricevesti a Vienna da Berlino riguardante l’esclusione degli ebrei dalla squadra tedesca del 1936. Devi prepararti  – continuava Sherril – al più grosso shock di tutta la tua vita […] e prima affronterai la situazione più avrai speranza di successo invece di un’esplosione devastante”. 

Esplosione che si ebbe effettivamente con la promulgazione delle leggi razziali di Norimberga del 15 settembre 1935. Senonché, mentre la Germania cercò d’attutirne la portata, inviando già il 25 settembre il presidente del proprio Comitato olimpico negli Stati Uniti per un tour di propaganda e ripiegando sulla tattica del “mezzo ebreo”, la posizione americana, che ci si sarebbe attesi divenir più rigida, perse al contrario d’efficacia provocando delle divisioni laceranti all’interno dell’AAU e un conflitto tra le presidenze USOC e AAU. Il maggior responsabile d’un tale cambiamento di linea va indicato nel presidente dell’USOC ed ex presidente dell’AAU Avery Brundage: figura d’anti-semita e di “crociato” integerrimo del dilettantismo e della neutralità dello sport, espulso nel 1941 dal comitato isolazionista “American First” per il suo filo-nazismo.

Affinità elettive con l’ideologia nazionalsocialista che, nel 1935, il consolato tedesco di Chicago segnalava  compiaciuto a Berlino, e che si rilevano pure tra le pieghe di dettagli “minori” come il seguente. Negli Stati Uniti il film di Leni Riefensthal Olympia, un sublime saggio di estetica al servizio dell’ideologia hitleriana, non ebbe libera circolazione. Un abuso, a detta di Brundage, da addebitarsi al fatto che in America “sfortunatamente i teatri e le aziende cinematografiche” erano quasi tutte “in mano ad ebrei”. Ma su Avery Brundage si tornerà nei successivi capitoli in maniera più approfondita. Per ora è sufficiente dire che, di ritorno in quei mesi da un viaggio esplorativo per l’USOC nel Reich, svolse in merito una relazione tranquillizzante e tale da convincere anche Gustavus Town Kirby; e in parallelo, operò per evitare una visita di Baillet Latour negli USA, ritenendo più utile allo svolgimento dei Giochi a Berlino non surriscaldare gli animi con azioni che avrebbero soltanto accresciuto la visibilità degli oppositori.

Baillet-Latour il quale, per altro, la sua scelta l’aveva già compiuta anzitempo; e a conclusione d’un colloquio con Hitler ,il 5 novembre 1935, rilasciò queste dichiarazioni che non lasciavano margini al dubbio:

Niente può opporsi al mantenimento dei Giochi della XI Olimpiade a Berlino e Garmish Partenchirken. Le condizioni richieste dalla Carta olimpica sono state rispettate dal Comitato olimpico tedesco. La campagna di boicottaggio non deriva dai comitati olimpici nazionali e non è appoggiata da nessuno dei nostri colleghi.

Nel frattempo nel campo germanico si attuava l’escamotage dilatorio dei “mezzi ebrei”. Un’operazione consistente nel lasciar credere possibili piccole aperture verso quei soggetti le cui origini razziali non erano completamente accertate. In questa prospettiva si scelsero come “specchietto per le allodole” atleti e atlete di primo piano, che potessero accentrare su di sé l’attenzione dell’opinione pubblica deviandola dalle discriminazioni su vasta scala applicate con la legislazione del settembre ’35. Le “cavie” prescelte furono due campionesse: Helene Mayer e Gretel Bergmann.

Nata a Offenbach am Main il 10 dicembre 1910 e allenata dall’italiano Arturo Gazzera, la Mayer vinse le Olimpiadi di fioretto del 1928, i campionati europei del 1929 e ’31 e fu quinta ai Giochi olimpici del 1932.Suo padre Ludwig era uno stimato medico, presidente dell’ ”organizzazione Centrale dei Cittadini Tedeschi di Fede Ebraica” di Offenbach. In prossimità dell’Olimpiade di Los Angeles la Mayer si trasferì negli Stati Uniti per studiare lingue presso lo “Scipps College” di Claremont, e laureatasi le venne offerto d’insegnare al “Mills College” di Oakland. Lì, venne colta dalle leggi razziali entrate in vigore in Germania e, il 27 settembre 1935, sul New York Times, fu pubblicato un articolo che la riguardava dal titolo: “Il Reich chiama due ebree nella squadra olimpica: Helene Mayer e la saltatrice in alto Gretel Bergmann”. Il pezzo soggiungeva che della convocazione era stata data notizia per lettera anche al generale Scherril, che in ragione di ciò si diceva pronto a dar il suo via libera ai Giochi del ’36. Questa minima e strumentale concessione, dunque, ammorbidì considerevolmente l’intransigenza statunitense, e la Mayer, imbarcatasi per la Germania il 13 febbraio 1936, fu l’unica ebrea tedesca a gareggiare in quelle Olimpiadi. Si prestò anch’essa a un compromesso di basso profilo, giunse seconda in finale e, a coronamento di questo straordinario maquillage di regime, sul podio ringraziò la folla con il saluto nazista. 

Diversa la sorte di Gretel Bergmann – nata a Laupheim il 12 aprile 1914 -, l’altra “vittima sacrificale” che il III Reich intendeva utilizzare per darsi una parvenza di legittimità. Figlia di genitori ebrei, nel 1934 a Gretel venne proibito di continuare a frequentare l’università in Germania e, per concludere gli studi, si recò in Gran Bretagna. Il 30 giugno 1936 s’impose nelle prove di qualificazione olimpica saltando m. 1,60 ed eguagliando il record tedesco, ma il 16 luglio le venne comunicato che, malgrado il brillante risultato, non era stata ritenuta idonea a vestire la maglia della nazionale. Allo sport nazionalsocialista bastava e avanzava un’ebrea, la Mayer, da esibire davanti all’opinione pubblica mondiale. Due, erano francamente di troppo. 

Chi viceversa boicottò deliberatamente, in quanto ebreo, l’Olimpiade delle “croci uncinate” fu Milton Green. Di Lowell in Massachussets, località che gli aveva dato i natali il 31 ottobre 1913, Green – studente ad Harvard – era primatista mondiale dei 60 m. ostacoli (7”5) nel 1936, quando, consultatosi con il suo rabbino, rinunciò ai Giochi olimpici per ragioni morali e religiose, rifiutandosi di partecipare a un’esaltazione dell’hitlerismo. 

Un coraggio che mancò all’AAU (la più antica istituzione sportiva americana, fondata il 21 gennaio 1888), chiamata dal 6 all’8 dicembre 1935, al “Commodore Hotel” di New York, a pronunciarsi definitivamente sulle Olimpiadi berlinesi. Confronto/scontro a viso aperto, per molti versi drammatico, che in base al suo esito impedì di scrivere una diversa pagina di storia olimpica e non solo. La battaglia all’ultimo voto era già in corso dall’estate, e si polarizzò attorno ai due principali contendenti: Jeremiah Titus Mahoney – l’esponente di punta dell’area del boicottaggio – e Avery Brundage. Nato a New York il 23 giugno 1876, giudice della Corte Suprema (1925-28) e delegato newyorkese alle Convention democratiche del 1920-‘32-‘36-‘40-‘44-‘48-‘52, il cattolico Mahoney, attenendosi alla risoluzione Kirby del 21 novembre ’33, partì all’attacco il 26 ottobre 1935 con una lettera aperta sul New York Time

snella quale poneva in  discussione la reale autorità di Lewald, portava dei precisi esempi di discriminazione razziale e accusava la Germania di voler sfruttare propagandisticamente i Giochi. E a dar fiato alle sue posizioni, in Versey Strett a New York s’installò un “Commitee on FairPlayin Sport” che nel 1935 editò l’opuscolo Preserve the olympic ideal: a statement of case against partecipation in the Olympic Games in Berlin. Testo cui replicarono sia Brundage che Gustavus T. Kirby, divenuto – nonostante Mahoney continuasse a evocarne le posizioni originarie – suo fidato alleato. Il primo con un documento di 18 pagine distribuito in 10.000 copie, Fair Play for American Athletes,  nel quale asseriva come dietro il boicottaggio si annidassero lobbies ebraiche e  agitatori comunisti; Kirby con delle sue riflessioni che portavano il titolo di Some why’s and wherefore’s of the Olympic Games of 1936. Trasportato questo dibattito al “Commodore Hotel”, Mahoney provò a indirizzare la discussione presentando nella riunione ristretta del Comitato esecutivo AAU, che anticipava l’apertura dei lavori congressuali, una sua risoluzione che dettava:

Occorre che la AAU chiami tutti i suoi membri, tutti gli atleti americani e tutti coloro che amano il fair play, a concordare con lo spirito di questa risoluzione: e quindi non dare supporto o incoraggiamento alla formazione di una rappresentativa USA per competere nei Giochi, né a prendervi parte, se questi si terranno in Germania,  come atleti o spettatori. 

Con una risicata maggioranza di 7 a 6 la risoluzione venne respinta. Mahoney insistette però nella sua battaglia, chiedendo di demandare all’Assemblea l’ammissibilità di una sua eventuale messa in votazione. Ne uscì nuovamente sconfitto per 61 11/20 a 55 7/60. A battere il boicottaggio non furono tanto i singoli delegati quanto il voto dei “grandi elettori” e delle associazioni. Tra questi, bocciarono Mahoney gli ex presidenti Brundage, Kirby, Murray Hulbert e l’ex segretario Frederick Rubien.  A favore del giudice della Corte suprema si schierò l’ex presidente Alfred Lille a metà, con un sì e un’astensione, l’ex segretario Ferris.

Tra le associazioni finì 13 a 2 per Brundage-Kirby con l’astensione dell’”Amateur Athletic Union of Canada” . Per non boicottare Berlino si espressero: “Amateur Skating”, “American Insitute of Banking”, “American Sokol Union”, “American Turnerbund”, “German American Athletic Union”, “Intercollegiate American Amateur Athletic Association”, “Middle Atlantic State Collegiate Athletic Association”, “National Cycling Association”, “National Ski Associations”, “Polish Falcons of American”, “Polish National Alliance”, “Slovack Catholic Sokol”, “United States Amateur Baseball Association”. 

A Mahoney,diedero il proprio assenso solamente “Amateur Fencers League of America” e “Jewish Welfare Board”. 

L’asprezza dello scontro, che stava provocando una crisi senza precedenti ai vertici e alla base dell’AAU, indusse tuttavia a ricercare una mediazione estrema. Aron Steuer, membro del “Jewish Welfare Board”, propose un emendamento che prevedeva la costituzione di una commissione paritetica di tre elementi (uno in rappresentanza delle posizioni di Brundage, uno di Mahoney e un terzo neutro) che si recasse in Germania per riverificare le condizioni di rispetto dei diritti umani nel Paese. L’emendamento Steuer perse di stretta misura 55 3/4 a 58 1/4, e questo scarto pose la parola fine a ogni volontà di boicottaggio americano delle Olimpiadi di Berlino. L’ultimo colpo di coda di questa lotta, che aveva sostanzialmente visto sfiduciare la presidenza AAU in carica, si ebbe in sede CIO. Un suo componente statunitense, Ernest Lee Jahncke, che vi era stato cooptato dal 1927, non intese rassegnarsi e con dichiarazioni pubbliche e lettere aperte a Theodor Lewald e Henri de BailletLatour proseguì nel sostenere la sua contrarietà a quei Giochi. Invitato alle dimissioni non accettò di rassegnarle e, per tale motivo, venne bandito dal CIO con voto unanime, tranne l’astensione del collega americano William Garland. Un’espulsione di cui approfittò immediatamente Avery Brundage, che ne prese il posto intraprendendo da lì una scalata che nel 1952 l’avrebbe issato sullo scranno più alto del CIO. Così da New York Arbor, il 15 luglio 1936, salpava il “Manhattan” con 384 atleti e 87 accompagnatori a bordo. La delegazione statunitense sbarcò ad Amburgo il 24 luglio 1936, e a quel punto, davvero, le Olimpiadi di Adolf Hitler non correvano più nessun pericolo. 

Nella foto Max Schmeling da Wikipedia.org

LETTURE CONSIGLIATE:

David Clay Large “Le Olimpiadi dei nazisti. Berlino 1936”, Corbaccio, Milano, 2009.

Marshall Jon Fischer “Terribile splendore. La più bella partita di tennis di tutti i tempi” 66tha2nd, Roma, 2013. 

Sergio Giuntini “L’Olimpiade dimezzata. Storia e politica del boicottaggio nello sport”, sedizioni, Milano, 2009.

David Margolick “Oltre la gloria. Joe Louis vs Max schmeling.Un orlo sull’orlo del baratro”, Il Saggiatore, Milano, 2008.

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