dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) – DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO
di Enzo Pennone
Il 15 Giugno del 1955 tre persone volarono a Parigi per illustrare ai membri del Comitato Internazionale Olimpico la candidatura di Roma all’organizzazione dei XVII Giochi dell’era moderna, erano Giulio Onesti il presidente del Coni, Bruno Zauli segretario generale e Salvatore Rebecchini sindaco della città, e dopo quell’illustrazione e la conseguente votazione tornarono in patria con il cuore in affanno e la testa in subbuglio perché 35 di quei membri nell’atto finale avevano scritto “Roma”, perchè stavolta bisognava davvero organizzarle le Olimpiadi, non c’era più Giolitti per aiutarli a tirarsene fuori come fece 50 anni prima… ma cinque anni dopo Roma le organizzò, e dal 25 Agosto all’11 Settembre del 1960 5346 atleti di 83 nazioni si sfidarono in 150 gare di 19 diverse discipline sportive in quella che il regista Romolo Marcellini definì “La Grande Olimpiade”. Il film ricevette un anno dopo il Premio d’Oro al Festival di Mosca, e fu opera certamente notevole, sia per le riprese che per la musica e i testi, che furono scritti da gente importante, giornalisti e scrittori Sergio Valentini, Donato Martucci e Corrado Sofia, e per la magnificenza degli scenari proposti per i quali il merito prevalente andava ascritto alla città di Roma dell’età dei Cesari.
Ma, se opera notevole fu quella del regista, “grande” cioè vasto cioè ricco cioè quasi senza confini di territorio fu il soggetto di quell’opera, cioè l’Olimpiade romana… un’Olimpiade grande per quantità di nazioni partecipanti e qualità di protagonisti di prove sportive, per quantità e qualità di record mondiali ed olimpici migliorati, grande anche nel significato di “prima” di “antesignana” rispetto alle altre nel diffondere con la Tv le sue immagini nel resto del mondo, grande nel significato di “qualcosa di mai visto e mai immaginato prima”, riferito ai tornei di lotta e di ginnastica disputati all’interno di siti di grande rilievo storico come la Basilica di Massenzio e le Terme di Caracalla, ma grande anche per numero di protagonisti di vita culturale sociale e politica coinvolti in quell’evento, così vasta e così ricca di contenuti fu quell’Olimpiade da aver serie difficoltà nell’individuare una vicenda sociale o politica o sportiva principale cui assegnare il ruolo di centralità dell’evento, e intorno a cui sviluppare trame narrative.
Parlerò poco di gare, perché di queste ne possono parlar meglio le immagini tratte dal film di Marcellini che faranno seguito al mio intervento, e descriverò invece due momenti che già dal 1936 facevano parte salda del programma ufficiale olimpico, che fungevano un po’ -diciamo- da antipasto alla grande pietanza agonistica che avrebbe fatto seguito, e che nell’occasione romana trasmisero fascino ed emozioni prima mai visti.
Per cominciare, grande Olimpiade, grande bellissimo seducente il viaggio della fiaccola olimpica, parto di un’organizzazione austera e meticolosa che all’epoca non aveva ancora ceduto alle lusinghe delle attività commerciali e ai diktat della pubblicità, e quindi non ci furono attori o politici che chiesero o pretesero di portare la torcia, un viaggio che fu uno straordinario ripasso di storia antica con dei professori impareggiabili, quei mari del Mediterraneo, l’Egeo e lo Jonio e quelle terre italiche, la Sicilia la Calabria e le Puglie un tempo facenti parte dei territori della Magna Grecia, furono cartoline in serie una più bella dell’altra, una più singolare dell’altra che riuscirono in parte ad ammansire quella retorica noiosa insistente e avvolgente che si manifestava in vari modi : come quando la vestale di Olimpia pregò Giove “perché i raggi di Febo accendano la sacra torcia la cui fiamma illuminerà la nobile gara dei Giochi pacifici per tutti i popoli della terra”. Pacifici si capisce solamente i giochi, perché se mai questa preghiera avesse preteso di allargare i suoi obiettivi di pace tra i popoli della terra anche ad altri momenti della vita, cioè oltre le 15 giornate canoniche dei giochi, la storia le avrebbe subito fatto sapere il proprio punto di vista sulla faccenda…
La scelta del percorso di quel viaggio fu sofferta, furono proposte altre soluzioni il che creò malumori negli abitatori delle terre italiche un tempo Magna Grecia perché quale cosa più naturale per spostare una fiaccola olimpica dalla Grecia a Roma se non quella di scegliere un itinerario dal forte sapore storico a meno che non si voglia farle attraversare le Alpi come fece Annibale nella sua campagna d’Italia contro Roma, la scelta fu sofferta ma per fortuna vinse il partito dei classici, e cadde su quel tracciato che poteva rappresentare, come si legge nel Rapporto del Coni, “un ideale filo conduttore tra i due poli della civiltà classica, Atene e Roma, attraverso i luoghi della Magna Grecia”.
La sacerdotessa della preghiera a Giove nell’agosto del 1960 era un’attrice drammatica Aleka Catseli, che senza commettere errori fece tutto quello che il protocollo prevedeva, accensione del braciere, poi della torcia e consegna della stessa al primo tedoforo. Che si chiamava Panayotis Epitropoulos, un decathleta di modeste pretese che lasciò Olimpia e si inoltrò nelle campagne dell’Elide lungo il corso del fiume Alfeo…passò Pirgo la torcia, e poi Patrasso, Corinto, Megara, Eleusi, e giunta ad Atene il tedoforo di turno la cedette al principe Costantino di Grecia, che, tra tutti gli esponenti delle monarchie europee, si distingueva per l’abilità nel coniugare lo “status di regnante” con quello di “sportivo”, infatti fu un ottimo velista Costantino e conquisterà nei giorni successivi la medaglia d’oro nella specialità dei “dragoni”. (Nirefs 3)
Al Pireo il fuoco fu trasferito a bordo della nave-scuola della Marina Militare Italiana Amerigo Vespucci, un veliero antico bellissimo maestoso, e il comandante capitano di vascello Manca di Villahermosa ordinò rotta su Siracusa attraverso le acque dell’Egeo, e poi dello Jonio, cioè quegli stessi mari che duemilasettecento anni prima avevano solcato altre navi partite dall’Ellade per fondare le colonie d’occidente, delle quali Siracusa fu la più grande, per bocca di Cicerone la “maxima et pulcherrima urbium graecarum”.
E dopo cinque giorni e quattro notti di serena navigazione, sempre un occhio al fuoco che non si spenga, la nave a vele spiegate scortata da tantissime imbarcazioni entrò nello storico porto di Siracusa, lì dove nei secoli passati ateniesi e cartaginesi ci avevano lasciato le penne e pure le navi, e vi entrò illuminata dalle fotoelettriche che la fecero apparire come d’incanto nella notte, accolta da una folla immensa e ammutolita, una folla affamata di cose importanti, una folla che, scrisse un giornalista, “fu da sola in grado di rappresentare spettacolo nello spettacolo”.
Furono stimati in 35.000 i cittadini presenti allo sbarco per una città che all’epoca ne contava 80.000, tutti assiepati tutti all’in piedi come nelle curve degli stadi di calcio, nessuno sapeva o capiva qualcosa di Olimpiadi, di fiaccole, di tripodi, ma la calda serata d’agosto, con la nave – il fuoco olimpico – i fuochi d’artificio – la stella Venere che brilla in cielo – gli inni – le bandiere al vento – le sirene delle navi – le campane che suonavano a festa come quando comunicarono la fine della guerra, tutte queste cose qua li abbagliarono, li tramortirono… poi il sindaco fece il suo discorso e in aggiunta alle solite parole di benvenuto augurio e di ringraziamento ebbe l’acume di ricordare i grandi olimpionici siracusani dell’antichità, da Lygdamis la cui forza dicevano pari a quella di Eracle a Ierone l’Etneo proprietario di cavalli vincenti e cantato da Pindaro nell’Olimpica I^, da Astylos grande velocista sottratto a Crotone a Dykon fanciullo di Caulonia, da Hiperbios a Zophiros e Orthon, e non solo quelli ma pure quegli altri delle altre subcolonie greche dalle quali la fiaccola purtroppo non sarebbe potuta transitare, e lo fermarono giusto in tempo perché era attraccata frattanto al molo la baleniera che portava il sacro fuoco e lui, come da protocollo, avrebbe dovuto con quello accendere il tripode, ed il sindaco che non era uno sprovveduto seppe districarsi abilmente in questo labirinto di incarichi e accese il tripode, e consegnò la torcia al Presidente della Regione Benedetto Majorana della Nicchiara, uno nobile, esponente dell’aristocrazia terriera che diversi anni prima era stato sindaco di Militello in Val di Catania -il paese di Pippo Baudo- con la lista dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. (continua)