di Furio Fusi

Mi viene la nostalgia di Brescia, di quegli anni, di quella atletica leggera, di quei vecchi amici alcuni non più presenti (RIP) 

Tanti anni fa l’amico Angelo Sguazzero mi prego’: “tu che sai farlo, scrivi di noi!”

Forse non era allora ancora il tempo, il momento adatto, ma in tutti questi anni, questo tempo, ho continuato a sentire dentro di me una vocina che mi ricordava questa richiesta ed ora credo che sia giusto farlo per cercare di fornire un mio personale contributo a narrare di quel meraviglioso allora. 

Ed eccomi qui a cercare di farlo con tanti ricordi che affollano la mia mente, e tentare di raccontare il mio di quando il mondo era in bianco e nero e le piste erano di carbonella nera e terra rossa ma, il colore che maggiormente brillava era l’Azzurro. 

Noi, i ragazzi di oltre mezzo secolo fa, eravamo una squadra, un GRUPPO, un insieme di giovani fatto di tante individualità ma soprattutto una Famiglia. Una di quelle Famiglie unite che si facevano forza e coraggio sostenendosi l’un l’altro sudando, studiando, lavorando e correndo, esultando per i successi un dell’altro. 

Forse questa era la magia. 

Si faceva atletica divertendosi e creando divertimento per i sempre numerosi spettatori che riempivano gli stadi delle città italiane acquistando un biglietto ai botteghini. 

Nessuno era pagato per correre, né tanto meno premiato perché dedicava il suo tempo all’atletica e per risultati che riusciva a conseguire. 

Quelli poi che avevano la fortuna di entrare in un gruppo militare, dei Carabinieri, Aeronautica, Fiamme Gialle, ovvero quelli con le stellette, svolgevano la loro “leva” tra caserme e campi di atletica. 

Ligi al dovere si presentavano alle manifestazioni vestendo la divisa di ordinanza ed avevano comportamenti rispettosi verso la medesima, che portavano con onore non solo alle cerimonie istituzionali. 

La maglia e le stellette erano cucite dentro di noi. 

Noi tutti, nessuno escluso, facevamo  gruppo, non c’era il “fenomeno” con il proprio coach personale che si allenavano altrove, depositari di chissà quali segreti per poter ottenere splendidi risultati individuali. 

Non vedevamo l’ora di ricevere la lettera di convocazione per il raduno per vivere  insieme, condividere  tutto, ricerca, allenamenti, errori, metodologia e sudore, con i pochi mezzi a disposizione si cercava di ottenere il massimo. 

Ricordo ancora quel giorno nella primavera del ‘68, tutti sdraiati sul “materassone” a Formia, 

quando, tra noi tutti si discuteva cercando di comprendere come fosse possibile che quello strano ragazzo americano fosse riuscito a saltare di schiena così in alto. Internet non c’era ed i giornali pubblicavano solo una foto. 

Si condividevano luoghi di allenamento, di riposo e di ristorazione e non raramente il divertimento, ancora impregnato di una goliardia e di incoscienza che andava ahimè spegnendosi anche negli atenei. 

Erano anni con pulsioni di cambiamento ed un vento di rivolta che scompigliava i capelli di noi giovani non ancora ventenni. 

Ho trascorso molto tempo a Brescia, alloggiato dai frati Francescani in via Callegari, alla corte di Sandro Calvesi, un papà per tutti noi. 

Tutti i giorni in autobus sino al Morosini per allenarsi assieme a dei veri miti dell’atletica leggera,  per me che mi affacciavo a questa disciplina dello sport. 

Ottoz che di Brescia aveva fatto la sua seconda casa, Berruti, Preatoni, Ottolina, Giannattasio, Frinolli, Bianchi, Bello, atleti con già alle spalle tanta esperienza con una o più Olimpiadi e tante presenze in Azzurro. 

Eravamo tutti sempre insieme, sempre uniti, nei campi di allenamento, di gara e nei momenti di relax in città in attesa dell’allenamento pomeridiano. 

Ricordo che quando si passeggiava per le vie centrali di Brescia in Corso Zanardelli, giocosamente si simulavano i “cambi”, passandoci l’un l’altro, un giornale arrotolato quale testimone.

Non era raro che si immaginasse un ipotetico traguardo davanti a noi e tutti, senza neppure parlarci,  a buttarsi braccia indietro tagliando l’improbabile filo di lana e poi esultare per la vittoria. 

Il tutto tra lo stupore e la curiosità dei passanti che ben sapevano che noi eravamo i ragazzi del prof. Calvesi. 

Non eravamo uniti solo per le telecamere, quelle ad esempio della zona mista anche perché,  fortunatamente, c’era solo il buon Rosi a commentare, lui che di sport, boxe, rugby ed ovviamente atletica se ne intendeva davvero. 

Galeotto fu per lui un bicchiere di caffè che cadde sui suoi appunti, in uno storico meeting di Siena, e che lo coinvolse in un non proprio elegante sbotto, di cui ne pagò però le conseguenze. 

Noi, figli di un dopo guerra, partoriti in città che ancora avevano i segni  delle bombe, non eravamo certamente portatori di certezze, avevamo timori e tante paure, della vita, della pista e di un futuro che nessuno sapeva e poteva prometterci, così come nessuno si prendeva cura dei nostri bisogni, difficoltà economiche. 

Fare colazione con cioccolata calda alla mensa del Franciscanum e poter godere di marmellata e burro da spalmare su di un pane fresco, per noi era una conquista abituati come eravamo nelle nostre case a latte e pane secco. 

Per l’abbigliamento non c’erano sponsor se non per i più fortunati o quelli che avevano società che fornivano un paio di scarpe all’anno. 

Avevano a casa la nostra mamma che ci cuciva i calzoncini di finta seta sgambati, il cui modello di carta ci passavamo l’un l’altro. 

Noi non ci vestivamo come tanti puffi blu, o novelli Nureev, tutti cuciti in tute di lastex per ridurre la resistenza al vento, senza scarpe al carbonio e piste performanti che i materassi a molle Permaflex invidiano. 

Le nostre canottiere erano di lana, che si infeltriva con il nostro sudore, le riponevamo nella nostra sacca sportiva ed indossavamo il giorno dopo, così come l’avevamo lasciata  se non riuscivamo alla sera a lavarla nel lavandino della nostra camerata. 

Una maglia sola noi avevamo e dovevamo farcela durare, sino alla prossima presenza. 

Mi chiedo dove fosse la magia di tutto quel periodo, allenandoci fianco a fianco con i nostri miti dell’infanzia, atleti famosi medaglie olimpiche, recordman europei o mondiali, che avevamo ammirato in tv. 

Vivevano con noi, mangiavamo insieme si ci scaldava ed allenava gioiosamente, stavano in raduno per tutto il tempo necessario e non si aggiungevano alla comitiva all’ultimo momento magari con un aereo diverso ed una classe più alta della nostra. 

Quanto positiva era questa possibilità di parlare con loro, rubare segreti di tecnica che segreti non erano, imparare i lori gesti, modi di dire, scherzare ridere come se fossero persi e comuni. 

Il nostro allenatore Calvesi che sacrificò la sua vita privata, la sua famiglia, curava per la Federazione di Atletica Leggera: velocità, ostacoli, alti e bassi, 400 e staffette insomma fate voi il calcolo quanti tecnici servono invece e non entro in merito alle capacità che ovviamente, non conoscendo, non mi permetto di comparare. 

È vero, lui aveva collaboratori che lo aiutavano in campo, a rilevare tempi, magari a scaldarsi con noi ma lui era presente ovunque e sempre, prima durante e soprattutto dopo l’allenamento. 

Pranzava e cenava con noi ed andava a casa sua, in via Castellini, poco distante dal Franciscanum, solo per dormire. 

Non era il papà di un solo atleta ma il PAPÀ di tutti noi.

Il suo telefono però era sempre aperto per noi per qualsiasi dubbio o problema e…i cellulari sarebbero arrivati 30 anni dopo. 

E poi da non sottovalutare esistevano tante altre belle Famiglie quelle della Marcia, dei Salti e dei Lanci ognuna con le proprie peculiarità che facevano comunque della Nazionale di Atletica Leggera di quegli anni, una unica GRANDE BELLA FAMIGLIA.

Nella foto in copertina da sx: Calvesi, Giani, Sguazzero, Ottolina, Simoncelli, Bello, Berruti, Preatoni, Liani, Fusi, Gabre Gabric

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