di Marco Giani

La cestista e pattinatrice a rotelle Diana Cenni (Bologna, 12 settembre 1917 – Incisa in Val d’Arno, 27 agosto 1999) può essere senza dubbio aggiunta al crescente gruppo delle donne sportive d’epoca fascista che, introdotte alla pratica sportiva da un regime che pensava così di forgiare il loro corpo un giorno materno, durante la Seconda Guerra Mondiale decisero invece di aderire alla Resistenza. La disponibilità del figlio Daniele Doglio ci permette di ricostruire ulteriormente i tasselli biografici della madre, moglie del noto architetto ed urbanista anarchico Carlo Doglio (Cesena, 19 novembre 1914 – Bologna, 25 aprile 1995): una giocatrice di tutto livello, visto che nella sua lunga carriera spesa indossando la casacca della GIL Bologna (1938/1939), del Dopolavoro Magnani Bologna (1939/1942), della Canottieri Milano (1943) e della Bernocchi Legnano (1946/1948), vinse ben 3 scudetti, nelle stagioni 1943, 1947 e 1948.

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Il padre di Diana, Antonio Cenni (1880 circa – 1929) era un idraulico che, messosi in proprio, aveva improvvisamente fatto fallimento «a causa del mancato pagamento di un grosso lavoro da parte di un imprenditore edile, che lo aveva commissionato». Morto precocemente, Antonio aveva così lasciato la moglie Margherita Simoni (m. 1972) vedova con 6 fra figli e figlie (in ordine di età: Oddone, Edmea, Gorizia, Diana, Clara, Franca), i quali erano stati così costretti a crescere in fretta, nella casa di via Silvani, in zona Porta Sassi (San Felice). Dopo gli studi elementari, Diana aveva svolto studi indirizzati all’apprendimento di un lavoro, culminati in un corso di ostetricia.

Mantenendo un «atteggiamento molto riservato» dal punto di vista politico durante gli anni del regime, la giovane Diana «utilizzava le associazioni fasciste per fare quello che le piaceva fare, per essere indipendente dalla famiglia, che era di origine modesta». Anche per questo, a distanza di anni, sia Diana che il futuro marito Carlo «non hanno mai negato di aver vinto manifestazioni come i Littoriali» (sportivi, nel primo caso, culturali nel secondo), «perché era avvenuto effettivamente così». Se all’epoca «era comune che chiunque avesse dei talenti sportivi, dovesse esprimerli in tutti i campi possibili e immaginabili», Diana li espresse nelle rappresentative sportive della Gioventù Italiana del Littorio (GIL) di Bologna: «le hanno fatto fare sci, all’Abetone, perché servivano punti; le hanno fatto fare anche pattinaggio a rotelle; forse anche atletica. Insomma, varie attività; poi il tutto è sfociato definitivamente nella pallacanestro».

Diana iniziò a giocare a basket fra il 1935 e 1936, e lo praticò fino alla nascita di Daniele (1949), militando in due squadre di Bologna, e in due di Milano (una, la Borletti), vincendo un po’ di scudetti.

Fu proprio su un campo da basket bolognese che Diana conobbe Carlo Doglio, che era andato a vedere una partita di pallacanestro femminile. Carlo non era uno sportivo, ma in quanto intellettuale era molto incuriosito da questa attività. A fine anni Trenta i due iniziarono a stare assieme.

Non è molto chiaro quando Diana arrivò a Milano, fra il 1941 e il 1942: in ogni caso, prima dell’estate del 1943 che sancì la caduta del regime. Venne assunta, forse come impiegata, all’Istituto Sieroterapico, allora diretto dal presidente Dolmetta. A Milano Diana entrò nella Resistenza, nelle fila del piccolo Partito Italiano del Lavoro, una formazione di tendenza socialista-anarchica: l’insospettabile sportiva si occupava sia di attività di propaganda (manifesti e giornali), sia del trasferimento di armi e di materiali. Un episodio è rimasto in particolare in mente al figlio Daniele. Un giorno sua madre si era recata in bicicletta a Piacenza, dove c’era un grande mercato di frutta e verdura: proprio per questo la ragazza aveva messo il materiale scottante (documenti, o armi) in una borsa riempita poi nella parte superiore con patate e mele. Arrivata al ponte sul Po, Diana era stata fermata da soldati tedeschi, e si era salvata perché «si era messa a giostrare mele e patate per non far vedere cosa ci fosse nel fondo della borsa». Altre volte Diana e le compagne di lotta fingevano di essere prostitute allo scopo di attirare militari tedeschi.

A livello lavorativo, Diana svolse per poco tempo quello di ostetrica: quando la coppia si trasferì a Ivrea, Diana si occupò degli asili aziendali della Olivetti. Quando venne però il momento di dare alla luce Daniele, Diana decise di partorire a Milano, «perché non voleva che io nascessi in provincia: si fece ricoverare a Milano alla Croce Rossa dove aveva lavorato. Dopo il parto, venne riportata a Ivrea sulla macchina personale di Olivetti».

La coppia poi si trasferì a Napoli: qui Diana aprì un consultorio.

Anche in età avanzata, i coniugi non si interessarono mai al calcio, ma condivisero la passione per il basket, come era abbastanza usuale per le persone della loro età cresciute a Bologna. Daniele si ricorda ancora che la mamma lo portò a conoscere Cesare Rubini, allora allenatore della Simmenthal (quindi dal 1957 al 1973), «che era stato suo compagno in Nazionale».

Si ringrazia Daniele Doglio per l’intervista telefonica concessa il 12 luglio 2021, e per la revisione a distanza della prima versione di questo pezzo, del 24 agosto 2023.

Fonte dell’immagine: Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Diana_Cenni ).

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