dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) –  DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO

di Felice Fabrizio

Ogni giorno l’insegnante ha di fronte allievi che attendono fiduciosi la risposta a tutti i loro perché.

E allora, che nel cielo dei poeti Roberto Roversi mi perdoni se rubo le parole alla sua “Chiedi chi erano i Beatles”, facciamo che al primo banco ci sia “la ragazzina bellina di quindici anni di età, col suo naso garbato, gli occhiali e con la vocina. Che deve ancora imparare, che è nata ieri, che del resto ne sa proprio poco”.

Che ci domanda chi era mai quel Bartali (uso la parola piana non solo per esigenze metriche, ma anche perché fino al 1940 sui giornali sportivi resterà aperto il dilemma Bartali o Bartàli).

Prendo il coraggio a due mani e sparo la mia risposta.

Bartali non è solo uno dei tanti eroi sportivi sfiorati dai grandi eventi. E’ un protagonista della Storia con la esse maiuscola.

E’ il prototipo degli assi del pedale che, come afferma nel 1936 Orio Vergani, “un tempo erano simili a noi, contadini, braccianti, muratori, garzoni. Han preso la bicicletta e hanno conquistato il mondo. Le folle li attendono e li acclamano perché hanno sfidato la polvere e la pioggia e, benché feriti, si sono rialzati. Perché hanno vinto le montagne. Sono i diseredati della fatica che in un torneo umile e appassionante si sono fatti cavalieri della fatica”: Bartali è l’alfiere dello sport del popolo che parla un linguaggio facilmente decifrabile. E’ un uomo a tutto tondo, nella sua grandezza e nelle sue miserie. E lo storico, diceva Marc Bloch, è “come l’orco delle favole: là dove fiuta carne umana, là sa che é la sua preda”.

Una preda che inseguirò in una corsa lunga tredici anni, anni cruciali nella storia italiana, soffermandomi su tre momenti specifici della lunghissima carriera del ciclista toscano: le prime affermazioni; la traumatica interruzione legata allo scoppio della seconda guerra mondiale; gli anni della seconda giovinezza.

Se volete “ascoltare non solo per gioco il passo di mille persone, se volete sentire sul braccio il giorno che corre lontano”, io sono pronto. Andiamo a cominciare. 

BARTALI IL PIO

Primo agosto 1938. Il pubblico parigino assiepato sulle tribune del Parco dei Principi acclama il vincitore del Tour de France, un ventiquattrenne esile e schivo nato a Ponte a Ema, piccola località alle porte di Firenze. L’entusiasmo degli italiani è alle stelle.

La campagna sportiva di Francia, inserita in una più vasta offensiva gallofoba scatenata da Mussolini, si è conclusa con un esito trionfale.

Nel giro di poche settimane Nearco, il “cavallo del secolo”, si impone nel Grand Prix di Parigi; i calciatori italiani si riconfermano campioni del mondo; Bartali si aggiudica la massima competizione mondiale rinnovando le gesta di Ottavio Bottecchia.

Tutti gli obiettivi propagandistici sono stati centrati. In barba agli esuli antifascisti che favoleggiano di un calo del consenso, che hanno fischiato la nazionale, che hanno preso a sassate le macchine italiane al seguito del Tour, un popolo gagliardo e compatto, forte di una evidente superiorità di razza, ha dimostrato come sotto l’egida del regime ogni forma della vita sociale è destinata a primeggiare.

Eppure attorno al recinto delle premiazioni aleggia un clima strano.

Le liturgie che accompagnano le imprese degli ambasciatori straordinari all’estero paiono più doverose e fiacche che mai: il fascio littorio sulla maglietta, il saluto romano, i telegrammi di felicitazioni dei gerarchi, gli annunci a pagamento apparsi sui giornali sportivi (“Un comandamento dell’Italia del DUCE: vincere! Bartali, campione della Legnano, ha obbedito”).

Al microfono dello speaker dell’EIAR Giuliano Gerbi, che di lì a qualche giorno sarà licenziato in quanto “appartenente alla razza ebraica”, Bartali, dopo aver bofonchiato parole smozzicate di ringraziamento agli alti papaveri del regime, scandisce a chiare lettere il suo “caro ricordo agli amati confratelli dell’Azione Cattolica”.

Ed é inalberando con fierezza il distintivo della Gioventù Italiana di Azione Cattolica che il campione si reca il giorno successivo a deporre una corona di fiori al santuario di Nostra Signora delle Vittorie e a far visita all’arcivescovo di Parigi. Che, al rientro in Italia, si presenta all’appuntamento con Starace che, invece della medaglia d’oro al valore atletico conferita alla nazionale di calcio, lo insignisce della medaglia d’argento.

Poco male. Gino può consolarsi con la medaglietta di Santa Teresa fatta pervenire da Pio Xl al termine di una udienza pubblica a Castelgandolfo e con le accoglienze trionfali che gli riservano cardinali, dirigenti dell’Azione Cattolica, collegi e giornali religiosi. (IMMAGINE 5)

Ce n’è a sufficienza perché il nove agosto una velina del Minculpop imponga alla stampa di occuparsi di Bartali, sul cui conto l’OVRA ha aperto un fascicolo, “esclusivamente come sportivo, senza inutili resoconti sulle sue giornate di libero cittadino”.

Da dove sbuca questo alieno che e stato inviato al Tour dopo che tra Mussolini, Starace e il generale Antonelli, presidente dell’UVI, si è svolto un dialogo di questo tono: 

“Bartali é fascista‘?” “Assolutamente no!” “Ma potrebbe vincere il Tour?” “Si, se gli verrà vietato di correre prima il Giro d’Italia” “E allora mandiamolo. Meglio una vittoria che un fascista che perde” ?

Da dove sbuca questo scarto di produzione della infaticabile “officina di Mussolini” ?

Per capirlo é necessario, come in tutte le grandi storie, fare un passo indietro.

Fino al 1936 la vicenda umana e sportiva di Bartali non si distacca da quella degli altri campioni del pedale.

Nato nel 1914 da un padre di convinzioni socialiste e da una madre profondamente religiosa, Gino trova modo di coltivare la sua passione impiegandosi come meccanico in una bottega di riparazioni di biciclette. Esordisce nel 1931, passa al professionismo nel 1935 per essere assunto in forza l’anno successivo dallo squadrone della Legnano,  Bartali é cattolico, come tanti altri sportivi prima di lui. Mai tuttavia la fede era stata ostentata come elemento distintivo e come fattore di successo come avverrà per Gino, attorno al quale il movimento cattolico, servendosi di tutti gli strumenti a sua disposizione, si accinge ad imbastire una operazione propagandistica attentamente studiata a tavolino.

Operazione che ha una data e un luogo di nascita: 21 maggio 1936,

Montecatini, località di arrivo della terza tappa del Giro d’Italia.

Il padrino é Carlo Bergoglio, il popolare “Carlin”, uno dei più grandi giornalisti sportivi italiani, uomo di dichiarata fede.

Carlin, che ha captato i segnali della schietta religiosità del corridore, intervista per la torinese “Gazzetta del Popolo” Bartali e il suo direttore spirituale don Bruno Franci. Il sacerdote gli assicura che Gino “gli é un buon figliuolo, va a messa ogni domenica, porta il distintivo della Cattolica”, alla quale è affiliato dall’eta di dieci anni.

La macchina si è messa in moto. “Gino Bartali vincitore del Giro d’Italia e vessillifero della Gioventù Cattolica”, titola su sette colonne l’organo della curia milanese “L’Italia”.

L’autore del pezzo e Carlo Trabucco, militante torinese dell’Azione Cattolica, allontanato dalla redazione de “La Stampa” per non aver voluto prendere la tessera del PNF.

Trabucco informa i lettori che Bartali porta all’occhiello, accanto a quello dei Giovani Fascisti, il distintivo di una Gioventù Cattolica che considera una autentica “milizia”. Che è devoto a Santa Teresa di Lisieux, alla quale nella sua casa ha eretto un altare.

“Basta guardarlo negli occhi per accorgersi che é dei nostri”, incalza Luigi Gedda, dal 1934 presidente della GIAC, che, dopo avergli consegnato un distintivo d’oro, lo accredita presso Pio XI come atleta cristiano spendibile sul piano apologetico.

La Libreria Editrice Salesiana pubblica a tamburo battente “Arriva Gino”, commedia destinata a diventare un cavallo di battaglia dei teatri parrocchiali.

E il tamtam mediatico non accenna a placarsi nel corso degli anni a seguire. 

Nel 1937, che coincide con il secondo successo di Bartali nel Giro d’Italia, si sparge addirittura la voce che il ciclista, affranto per la morte del fratello Giulio in un incidente di corsa, si sia ritirato in convento. Ma si tratta dell’ennesimo frutto della colossale ignoranza italiana in materia religiosa, che induce a confondere l’ordine religioso con il Terz’Ordine Carmelitano Teresiano, al quale Bartali è stato aggregato con il nome di Fra Tarcisio di Santa Teresa del Bambin Gesu.

La stampa fascista, presa in contropiede, dopo essersi sforzata invano di far suo il nuovo prodotto dell’immaginario culturale, oscilla tra lo scetticismo, il fastidio, il sarcasmo.

Scendono in campo le grandi firme. Bruno Roghi sostiene che “la vocazione dello stradista non annulla la devozione del credente: Dio aspetta sulle montagne gli uomini di buona volontà”.

Marco Ramperti sfonda la barriera della sublime idiozia: “chi ha visto passare Gino Bartali nel vespero delle crode, mentre il raggio delle ruote risplendeva come quello del rosone di un altare, dice che egli aveva la testa eretta e gli occhi socchiusi e le braccia sciolte, quasi, dai manubri, così come in preghiera”.

Dalle colonne de “Il Popolo d’Italia” picchia duro Nino Nutrizio, prendendo spunto dalla riluttanza del corridore a partecipare al Tour del 1937: “andrò se mi assicurano 200.000 lire, dice Bartali, che si e creato una popolarità come sereno interprete della bontà francescana. Ma non ci risulta che il Poverello di Assisi avesse libretti di risparmio”. 

Si sussurra che nel 1938, al mondiale di Valkenburg, Bartali abbia volutamente corso al risparmio per privare il fascio di una grande vittoria. E dopo il giro del 1939 un informatore dell’OVRA riferisce di un’opinione pubblica che ha accolto con gioia il successo del Giovane Fascista Giovanni Valetti a spese del “commediante cattolico” Bartali.

Alla lunga, insomma, prevale la presa di distanza. Troppo marcata è la discrepanza tra lo stereotipo dell’uomo nuovo aderente ai valori fondanti del regime e quello incarnato dall’atleta toscano.

Gli assi dello sport fascista ostentano una bellezza virile e una congrua dose di arroganza; sono immersi in un tempo scandito dai clamori delle adunate oceaniche; leggono “La Gazzetta dello Sport”; si ispirano a Mussolini, “promo sportivo d’Italia”; scelgono come numi tutelari gerarchi e gerarchetti.

Bartali è esile ai limiti della fragilità. E’ mite, silenzioso. Non beve, non fuma, arriva vergine al matrimonio. E’ un solitario, il “solitario delle Dolomiti”. Legge le vite dei santi e le riviste cattoliche. Pone ad ideali di vita due campioni del laicato cattolico, Giosuè Borsi e Pier Luigi Frassati. Si muove in uno spazio sociale e culturale delineato dall’immaginetta stampata nel maggio del 1937 in centinaia di esemplari dalla chiesa milanese del Corpus Domini: “nella chiesa dove, prima di partire per il venticinquesimo giro d’Italia, ho invocato l’aiuto divino, oggi mantengo la promessa, ringraziando solennemente il Signore, la Vergine del Carmelo e la sua santa prediletta, Santa Teresa, per la nuova grazia concessami. Gli eminentissimi cardinali e i vescovi d’Italia che mi benedirono, i padri carmelitani, gli amici di Azione Cattolica, i terziari, abbiano il mio più vivo grazie”.

A dispetto delle insistenze dei fascisti fiorentini, rifiuta di prendere la tessera del PNF.

E, sopra ogni altra cosa, nel recitare la parte che gli é stata assegnata, compendia l’ideologia sportiva cristiana esprimendosi con il linguaggio incontrovertibile della vittoria.

E proprio in questa direzione va ricercata la ragione del successo dell’opera di appropriazione da parte del movimento cattolico.

Bartali è l’uomo giusto nel posto giusto al momento giusto.

Consente ai credenti di rialzare la testa, di cancellare in un sol colpo anni e anni di scudisciate squadristi che si abbattevano sui giovani cattolici: rachitici e occhialuti, conigli domestici, paolotti buoni solo a recitar rosari e a reggere ceri.

“Habemus campionem!”, esulta la GIAC, forte all’epoca di 10.000 sezioni e di 400.000 affiliati (un’enormità che ci riporta, rammentate, alla categoria del “totalitarismo imperfetto”).

La Gioventù Cattolica, è il leit – motiv di riviste come “Gioventù Nova” e “Credere”, penetra in ogni settore della vita sociale, si afferma in ogni competizione.

“Passava Gino Bartali veloce come il vento, il giovane cattolico con fede ed ardimento. Misteri di una tessera: la sua vittoria è frutto succoso della pratica del motto primi in tutto!”.

“Indietro! Passa Bartali. Alfiere, innalza l’asta. Siam giovani cattolici, signori, e tanto basta”.

In copertina: 31 luglio 1938 – Gino Bartali vincitore del Tour de France (Wikipedia.org)

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