di Raffaele Ciccarelli
La normalità diventata eccezione, mito: questo ha rappresentato Salvatore, per tutti Totò, Schillaci, che è stato strappato troppo presto ad una vita che, pur con picchi estremi di gioia, quasi estatici, spesso era stata dura con lui, fino al prematuro conto finale. Tanta era la sua voglia di vita, appunto, quasi trasfigurata nella altrettanto smisurata voglia di fare gol che da sempre ne ha accompagnato la carriera, fin dai primi passi nella squadra di quartiere. Il calcio inizia a diventare un mestiere concreto con l’approdo a Messina, in Serie C2, dove trovò il suo primo mentore, Franco Scoglio, conquistando la Serie B. Successivamente passò sotto le cure di Zdenek Zeman e del suo calcio offensivo, che ne esaltò, naturalmente, le doti, portandolo alle attenzioni generali e all’ingaggio alla Juventus. Era un’edizione dei bianconeri un po’ sbiadita, sotto tono in campionato, ma pure i torinesi vinsero una Coppa Italia e una Coppa Uefa, con il contributo concreto dello stesso Totò fatto di ventuno reti complessive e una attenzione particolare da parte di Azeglio Vicini, CT della Nazionale, che stava approntando la squadra per i mondiali casalinghi ormai alle porte. È a questo punto che la storia diventa mito fino a sforare nella leggenda, e quella che tutto sommato sembrava una buona carriera da attaccante sarebbe diventata il simbolo di quel mondiale, delle “notti magiche” vissute dall’intera nazione, anche senza la gioia finale.
Il gruppo scelto da Vicini succedeva a quello di Enzo Bearzot che aveva regalato la massima gioia a Spagna ’82 e vissuto il declino a Mexico ’86, con una ricostruzione naturale passata attraverso la promozione di tutto il gruppo dell’Under 21. Il “principe” Giuseppe Giannini, Carlo Ancelotti, Gianluca Vialli erano gli uomini di punta di quella squadra, ma a illuminare il cammino degli Azzurri nelle notti romane furono due giovani rampanti, Roberto Baggio e proprio il nostro Schillaci. Buttato nella mischia nel finale della gara d’esordio contro l’Austria, fu lui a segnare la rete vincente e a “guardare” al mondo con gli occhi allucinati e gioiosi immortalati dalla televisione, sguardo che si sarebbe ripetuto, sentenza implacabile, quasi fosse lo sguardo di Medusa che tutto pietrificava, contro Cecoslovacchia, Uruguay, Eire, fino ad arrivare alla semifinale contro l’Argentina. La squadra di Diego Armando Maradona, nella sua Napoli, in uno stadio già suo e che sarebbe diventato immortale con il suo nome, pur subendo una rete ancora di Schillaci, approfittò del clima non elettrico per pareggiare e poi eliminare gli Azzurri ai tiri di rigore, trasformando le “notti magiche” in incubo perenne. Totò aveva comunque ormai scritto la sua leggenda, anche nella finale per il terzo posto, nella partita della pace dopo i fatti dell’Heysel contro gli inglesi, il tabellino fece registrare il suo nome, fino alle sei reti totali, il titolo di capocannoniere e di miglior giocatore del torneo. È stato quel lampo azzurro del 1990 a consegnarlo alla memoria perenne, poi la sua carriera sarebbe lentamente scivolata verso una fine senza più picchi esaltanti, ma sempre sarebbero rimasti, e rimarranno, gli occhi di Totò Schillaci che hanno illuminato le notti magiche italiane.
Totò un ragazzo del Sud, di origine modeste, vissuto in un contesto difficile che, improvvisamente, divenne il re delle “Notti magiche”. Dopo la breve parentesi di “gloria”, viene presto dimenticato. Vilipeso e offeso dalla feccia che occupa le curve degli stadi italiani, per i tifosi veri e gli sportivi sani sarà sempre quel ragazzo che strabuzzava gli occhi per la gioia e lo stupore che lui stesso provava per i gol segnati. Gli siamo grati per quei brevi attimi di gioia incontenibile che ci ha fatto provare quando segnava un gol con la maglia azzurra. RIP.