ROMA, 1960: LA “GRANDE OLIMPIADE (seconda parte)
dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) – DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO
di Enzo Pennone
Dal braccio del feudatario la fiaccola passò al braccio dell’aristocrazia sportiva, perché questo che ancora si vede solo di spalle era Lo Bello, il miglior arbitro di calcio in Italia e in Europa e poi lo sarebbe divenuto anche nel mondo, e da quel momento gli occhi dei trentacinquemila si indirizzarono su di lui, in lui i trentacinquemila si immedesimarono, ciascuno di loro si vedeva trasferito nel corpo di Lo Bello, “ecce homo” sembrava che dicesse la folla prostrata… il corpo di Lo Bello quella sera fu però un corpo inconsueto, niente abito scuro da assessore comunale allo sport, e men che meno divisa arbitrale nera con polsini e colletto bianchi in cui lo identificava l’Italia tutta, quella sera il corpo di Lo Bello aveva un incarico molto diverso da quello domenicale, e quindi vestiva di conseguenza, come si conviene per ciascun corpo di tedoforo dell’Olimpiade di Roma del 1960: solo una maglietta di cotone ed un pantaloncino bianchi, calze e scarpe da corsa anche loro bianche. Un Lo Bello umile, devoto, niente fischietto, niente ammonizioni o espulsioni … egli raccolse la torcia con un abbozzo di inchino a chi gliela porgeva, come a dire grazie per avere scelto me, la impugnò con orgoglio, con perizia e un po’ di delicatezza, ed avviò la sua corsa maestosa, il primo dei 1.199 tedofori sul suolo italico, circondato da sei giovani valletti dello sport siracusano.
Nella notte la fiaccola superò le terre dei Ciclopi, e puntò su Giardini, l’antica Naxos. “E se di questa città ai nostri giorni non restano nemmeno le rovine” scrisse Pausania “del sopravvivere del suo nome anche nelle età future la causa è nella rinomanza di Tisandros figlio di Cleocrito che per quattro volte sconfisse a Olimpia i pugilatori nelle gare per gli adulti e altrettante vittorie ottenne anche a Pito”…” . Pausania fu uno scrittore e geografo greco nativo dell’Asia Minore vissuto nel II° secolo d.C. che scrisse la Periegèsi, un trattato storico geografico sulla Grecia in dieci libri, di cui il V° e il VI° sono dedicati all’Elide, la regione che comprende Olimpia, con una vasta e dettagliata descrizione di fatti e personaggi, e la gran parte di questi riferentisi ad atleti dell’età ellenistica.
La mattina seguente la fiaccola attraversò lo stretto, e sulla costa calabra anche la Locride, sulla quale condusse ricerche e scavi il grande archeologo Paolo Orsi, visse la sua giornata di gloria. Riaffiorarono le gesta sportive dei suoi figli ad Olimpia, tra questi Hagesidamos, un pugilatore fanciullo a cui Pindaro dedicò la X^ e XI^ delle sue Olimpiche (476 a.C.)
La fiaccola risalì il litorale ionico, toccò Caulonia, e nella notte successiva all’una inoltrata arrivò a Crotone, la patria di Pitagora. Quindicimila sacrificarono il sonno prendendo possesso di un quadratino di marciapiede nella piazza intitolata a lui, il filosofo il matematico l’astronomo lo scienziato il pedagogo che, tra teoremi e pensieri profondi, passò metà della sua vita in quella città, e in quella piazza c’era il tripode, quella notte la città tutta visse sotto la protezione delle glorie del suo passato sportivo, Daippos il pugile che primo tra gli atleti della Magna Grecia vinse ad Olimpia, poi i grandi velocisti, Glykon, Lykinos, Eratosthenes (quello che per vincere dovette battere altri 6 concittadini), Hippostratos, Diognetos, Isomachos, e Tisikrates, e anche Phayllos il pentathleta. E infine Milone, l’enorme Milone, il grande lottatore che cominciò la sua avventura sportiva quand’era ancora fanciulletto e la terminò 28 anni dopo, vincendo per 7 edizioni di fila ad Olimpia, più altre 26 volte ai Giochi Pitici, Istmici e Nemei. Dopo aver riposato qualche ora il fuoco riprese la sua marcia lungo la statale jonica, Corigliano Calabro, l’anticha Thurii, e poi Sibari, e poi Metaponto, l’opulenta città fondata dagli achei e amica di Crotone, dove i tedofori, prima di raggiungere i propri posti di cambio, posarono dinanzi al tempio di Hera per una foto-ricordo di quel magnifico pomeriggio.
Taranto tutta assistette a uno spettacolo indimenticabile, ed offrì anche la sua fetta importante di storia dello sport antico. Viveva qui, nel V° secolo a.C., Icco, medico ginnasiarca e maestro, fondatore della ginnastica medica e della dieta atletica, quello che visse sempre casto per non indebolire le forze del corpo, esempio di vita sobria e temperante al punto che, in antitesi ai famosi pranzi luculliani proverbiali a Roma, il frugalissimo pasto di Icco passò alla storia come “Icci coena” “la cena di Icco”. Vinse il Pentathlon nella 77° olimpiade (472 a.C.).
E con lui Anoco Adamanto Epicratide Ippozione Dionisodoro Smicrino e Timante tutti olimpionici dal VI° al IV° secolo a.C. ed altri ancora dal nome incerto tra cui quello che gli archeologi vollero battezzare “l’atleta di Taranto” quando nel Dicembre del ’59 scavando per porre le fondamenta di un edificio venne alla luce una grande tomba pluridecorata che conteneva un sarcofago con i resti di un grande atleta vincitore nel pentathlon quattro volte ai Giochi panatenaici nel V° secolo a.C.
Il mattino successivo la fiaccola lasciò il litorale jonico per l’appennino lucano, l’antica regione del Sannio, qui i duemila cittadini di Miglionico si mobilitarono per onorare Milone che la tradizione dice fosse stato il fondatore della città i tedofori si scambiarono la fiamma che proseguì per Matera e si fermò a Potenza. Altri chilometri, altre asperità, quindi venuta la notte arrivò a Paestum, dove il tedoforo attendeva il suo turno teso e inquieto perché portare la torcia olimpica a Paestum non è come portarla in un posto qualsiasi, e l’indomani col sorgere del sole il fuoco ripartì verso nord ed il tedoforo corse fiero ma con il cuore in tumulto intersecando le grandi testimonianze archeologiche del sito, la Basilica, il Tempio di Cerere (VI a.C) e quello di Nettuno dalle colonne doriche (V a.C.).
Il tedoforo transitò per Salerno, Amalfi, Positano, Pompei ed Ercolano, dove i famosi corridori della Villa dei Papiri sembravano in attesa di fare il proprio turno di staffetta, poi Portici e poi Napoli, dove sul lungomare di Via Caracciolo fu acceso il tripode ed il coro del San Carlo eseguì l’Inno Olimpico. Poi attraversò la verde piana di Cuma, lì dove la Sibilla, dal suo antro, prediceva i destini di Roma. E dopo Caserta, dove ebbe luogo una superba sfilata che si concluse nella storica Reggia, il viaggio proseguì in direzione di Aversa, Capua, e poi Formia, Gaeta, Sabaudia, Latina, Castelgandolfo.
E infine Roma, dove la sera del 24 agosto, fu acceso il tripode sul Campidoglio.
Il pomeriggio del 25 agosto, mentre il tedoforo transitava da Palazzo Venezia, allo Stadio Olimpico c’era un caldo da morire, 37 gradi di umidità asfissiante, ma nonostante ciò la sfilata delle formazioni fu pure lei “grande”, uno straordinario ripasso di storia moderna e contemporanea, di miti e leggende, di arte e architetture, di attualità e geografia del mondo, grande per numero di nazioni in passerella, e per quantità di storie e particolari e di risvolti sociali e politici che gli sfilanti si portavano appresso marciando dietro il vessillo della propria patria.
E alle 16 e 30 entrò la Grecia che per tradizione inaugurava il corteo olimpico e re Costantino reggeva il vessillo del suo paese, e dopo fu il turno della prima in ordine alfabetico, l’Afghanistan, e il suo alfiere al passaggio innanzi alla postazione presidenziale abbassò la bandiera in segno di saluto e rivolse uno sguardo profondo al nostro Presidente Giovanni Gronchi, e da quello sguardo sembrò che gli volesse raccontare la storia del suo paese, “Signor Presidente, la mia nazione ha una storia che si perde nella notte dei tempi, quando la nostra terra era il crocevia dell’Asia centrale e onde di popoli migratori la attraversavano e le lasciavano per ricordo la propria lingua e i propri costumi, poi ci furono le invasioni ariane (2000 a.C.) e poi l’impero Persiano e poi Alessandro Magno che lo demolì e ne assorbì per intero il territorio, e poi ancora gli Sciiti gli Unni bianchi e i Turchi, e poi come un po’ dappertutto arrivarono gli arabi, e lasciarono la loro impronta incancellabile che neppure Gengis Kahn riuscì a portare via con la violenza…le nostre terre sono terre impervie quasi inaccessibili e spesso ricoperte di neve…”….. ma a quel punto la storia fu interrotta perché le altre squadre in parata incalzavano… e da quel momento in poi parve che tutti i portabandiera di tutte le nazioni che sfilavano volessero raccontare al nostro Presidente la storia e le tradizioni della loro patria, così fu per l’Argentina e l’Australia divise dall’oceano più esteso del globo e unite da storie di emigranti del vecchio continente, per il Brasile del sertao e del cacao, del candomblè e della capoeira e della selecao do futebol, e per la Bulgaria già avviluppata nelle spire dell’anaconda sovietica, tredici nazioni avevano già preso posto sul prato dello Stadio e formavano un poligono irregolare in continua evoluzione quando entrarono il Canada in maniche corte che nel caldo romano di agosto sognava il fresco dei propri laghi e delle proprie foreste, e la Cecoslovacchia che già dal saluto libero e allegro mostrava al colonnello Emil Zatopek in tribuna i primi segnali di una imminente primavera…
e poi sfilò il Cile, si presentarono a Roma solamente in otto perchè tre mesi prima il paese era stato devastato dal più potente terremoto mai registrato nella storia e lo tsunami che ne era seguito aveva spazzato via gran parte di quanto si trovava sulla costa di Valparaiso…
ecco gli atleti della Corea del Sud che dopo la guerra del 38° parallelo ancora non faceva pace con quella del Nord e che mai l’avrebbe più fatta per gli anni a seguire…
l’alfabeto ignorava la geografia del mondo, così da un continente all’altro arrivò il turno di Cuba, e l’alfiere anche lui diresse lo sguardo verso il nostro Presidente – io ho l’onore di aprire la sfilata della Repubblica di Cuba e Le porto il saluto del nostro “lìder màximo”, e anche se non tutti siamo “barbudos” come lui ne condividiamo in tutto e per tutto il pensiero e i principi… per tanti anni il nostro popolo è stato oppresso, prima dagli spagnoli e poi in questo secolo dalla dittatura di Fulgencio Batista che è sempre stato aiutato e spalleggiato dagli americani, e a quelli vendette tutte le nostre ricchezze e proprietà arricchendosi come un paperone prima di darsi alla fuga nella notte di Capodanno del ‘59, (*) e allora da un po’ di tempo noi schiacciamo l’occhio al compagno Kruscev, che ci ha promesso una protezione totale dal nemico capitalista-…
alle 16.50 sfilò la Danimarca, atleti vestiti di bianco e scarlatto come i colori della bandiera nazionale, che lasciavano la sirenetta le variopinte abitazioni e la serenità e qualità della loro vita per inebriarsi del caos di Roma… e poi sfilò l’Etiopia, sei corridori e sei ciclisti, “uomini fieri alti esili” così li descrisse il cronista (Liebling) del New Yorker, che sfilavano dietro il vessillo a strisce verdi gialle e rosse con al centro il leone di Giuda, uomini che erano bambini quando le legioni del Duce entrarono nella loro capitale e proclamarono l’impero, che per entrare in quella capitale usarono i mezzi più vili e brutali che il mondo vietava e che da quella capitale trafugarono poi l’obelisco di Axum portandolo a Roma… e l’ultimo della fila sembrava meditare la sua vendetta che era pure quella del suo imperatore Hailè Selassié e che si sarebbe materializzata il penultimo giorno dei Giochi…
passarono poi le Isole Fiji con l’alfiere in giacca cravatta e gonna di juta, seguirono i filippini e poi i finlandesi…e poi arrivò il turno del pezzo di sfilata più controverso e contestato, la Cina di Taipei, o di Chiang-Kai-shek, che avrebbe voluto sfilare con questa bandiera che sventolava sull’isola fin dal 1949 e con il nome di Repubblica di Cina di cui rivendicava il diritto all’uso esclusivo e al riconoscimento quale unico Stato al mondo di cinesi veri e autentici, dodici raggi di un sole bianco in un cielo blu a simboleggiare i dodici mesi e le dodici ore della tradizione cinese e la “Terra rossa” che rappresentava il sangue dei rivoluzionari che sacrificarono se stessi per rovesciare la dinastia Qing, ma la Repubblica Popolare di Mao si rifiutava di riconoscerla, c’erano state tra le due Cine ostilità continue e conflitti armati uno va e uno viene già a partire dagli anni ’30 in una guerra civile che pareva non dovesse finire mai, e gli americani a Roma facevano pressioni a che i cinesi non cedessero sulle loro richieste anche a costo di venire esclusi dai Giochi, e nelle ore precedenti la cerimonia d’apertura fu tutto un susseguirsi di ordini e contrordini, ambasciatori cinesi americani e membri del Comitato Olimpico tutti affannati a consigliare una cosa o un’altra, e mentre i monti Chung Yang le foreste e i fiumi della grande isola riposavano tranquilli ignorando quel che succedeva a Roma -sfilata sì sfilata no bandiera questa bandiera quella- la delegazione infine scelse di sfilare preceduta dal cartello che la chiamava “Formosa” ma con le insegne della Repubblica di Cina sul completo blu e con un grande foglio bianco di protesta…
incuriositi più che convinti dalla contestazione dei cinesi gli spettatori dell’Olimpico videro sfilare i figli del barone De Coubertin che era morto senza poter coronare il sogno di assistere a un’edizione dei Giochi nella città eterna… …e poi arrivò la Germania, e l’alfiere Fritz Thiedemann campione di equitazione, passando a fianco del Signor Presidente gli sussurrò “non ascolti quel trombone di Brundage che gli siede a fianco, che vuol farle credere che il merito è tutto suo se noi oggi sfiliamo insieme mischiati gli uni con gli altri sotto un’unica bandiera, tedeschi dell’est comunisti e tedeschi occidentali, non c’entra nulla l’ideale olimpico Signor Presidente, questi sono anni in cui i due governi della Germania stanno come giocando a scacchi tra di loro, una mossa uno una mossa l’altro, ed allora va bene per adesso tenere le cose così come sono…-, i dirigenti delle due squadre, il nostro Gerald Stock e Manfred Ewald dell’Est quello che prima di diventare comunista aveva fatto parte della Gioventù hitleriana, ci hanno detto che per stare bene insieme bisognava evitare espressioni o manifestazioni che in qualche modo avessero un carattere politico, ma in effetti sa cosa Le dico signor Presidente l’unico vero momento di fraternità c’è stato durante l’alzabandiera nel Villaggio Olimpico quando è stato suonato l’inno alla gioia della nona sinfonia del maestro Beethoven, perché di fronte alla nona non c’è comunismo o capitalismo che tenga”…
e poi fu il turno del Giappone che a Roma fece le prove generali per l’edizione di quattro anni dopo a Tokyo, e poi della Gran Bretagna che nella sua formazione accoglieva anche gli scozzesi e i gallesi, e dalla tribuna stampa con flemma tutta britannica salutarono la squadra che marciava due inviati eccellenti del Times, Roger Bannister e Harold Abrahams, cioè quello che per primo abbattè il muro dei 4 minuti nella corsa del miglio e quello che vinse i 100 metri a Parigi nel ’24 e che avrebbe ispirato un giorno il regista di “Momenti di gloria”…
seguirono poi gli atleti dell’India con il loro caratteristico turbante, lottatori hockeisti ed il forte quattrocentista Milkha Singh, l’India che Nehru erede del pensiero gandhiano guidava già da tredici anni dal giorno dell’indipendenza promuovendo il pacifismo nel mondo e guidando i paesi “non allineati” in politica estera, e all’India seguì l’Indonesia pure quelli con un copricapo originale, il peci in feltro nero, indossato anche dal presidente Sukarno, che reggeva il paese sin dal ’47 quando ottenne l’indipendenza dalla regina d’Olanda…
e poi sfilò l’Iran che allora chiamavamo Persia, e dire Persia significava pensare allo Shah, cioè a quello del trono del pavone, quello che dei persiani per 38 anni avrebbe fatto quello che avrebbe voluto col sostegno di inglesi e americani, e che mise in archivio le bellissime Fawzia d’Egitto e Soraya Esfandiari per problemi di eredi maschi che la cicogna non volle portare e si unì infine a Farah Diba pochi mesi prima dei Giochi di Roma, mentre per gli studiosi dell’antico in tribuna dire Persia significava pensare alla grande Persepoli e al palazzo di Dario, e poi sfilò l’Iraq che cinque anni prima con la Turchia l’Iran americani inglesi turchi e pakistani aveva firmato il patto di Baghdad, ma lo aveva rigettato già qualche anno dopo quando al potere salì il generale Abd al-Karim Qasim che rovesciò la monarchia ed eliminò Faysal II l’ultimo re dell’Iraq, e Baghdad evocò negli spettatori storie antiche di califfi, una città felice cosmopolita di musulmani cristiani ebrei e zoroastriani, e pure storie fantastiche come i racconti che Sheherazade narrò al re persiano Shahriyar per mille e ancora una notte, e gli studiosi dell’antico in tribuna ricordarono la grande Babilonia e i suoi giardini pensili meraviglia del mondo lì dove la regina Semiramide, raffigurata in un famoso dipinto dal maestro Degas, raccoglieva rose fresche ogni giorno pur nel clima desertico della città,
e poi sfilarono l’Irlanda e l’Islanda e poi gli atleti della stella di Davide che ancora alle Olimpiadi marciavano liberi e sereni… (continua)
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