di Raffaele Ciccarelli

Spesso si pensa che per passare alla Storia, per lasciare un segno del proprio passaggio, occorra aver compiuto grandi imprese. Proprio la Storia ci insegna, però, che il semplicemente aver vissuto in maniera onesta il proprio mestiere, il proprio mondo, è sufficiente per lasciare una traccia indelebile. È quanto si può ascrivere a Carlo Mazzone, Sor Carletto o Sor Magara, semplicemente un allenatore di calcio il cui credo è stato sempre quello del sano calcio di provincia, abituato ad arrangiarsi e a cavare il meglio da quello che gli era messo a disposizione. Non risulti riduttiva questa definizione, però, perché Mazzone era un conduttore di uomini, profondamente legato alle sue origini, romane e popolane. La sua carriera di arcigno difensore iniziò nei Dilettanti con il Latina, dopo aver giocato nelle giovanili della Roma, poi poca Serie A, sempre con i giallorossi e la Spal, fino ad arrivare ad Ascoli, che divenne la sua seconda casa. Con i bianconeri marchigiani, dopo aver chiuso la carriera agonistica, passò alla panchina, formando un duo storico con il presidente Costantino Rozzi, altro personaggio che faceva della schiettezza il suo modo di vivere. Con l’Ascoli inizia la sua scalata, prima conquistando la promozione in Serie B (1971/1972), poi l’approdo nella massima serie dove al primo anno conquista anche una storica salvezza. Gli ottimi anni marchigiani gli valsero la chiamata alla Fiorentina, poi via via, passando per Bologna, Pescara, Catanzaro, Cagliari, fino ad arrivare alla panchina della sua amata Roma. Qui due quinti e un settimo posto, ma il merito di aver lanciato Francesco Totti, dimostrando di raggiungere feeling ideali anche con i grandi campioni, come con Francesco Antognoni a Firenze, Oliver Bierhoff ad Ascoli, Aldair alla stessa Roma. È lui alla guida del Perugia che sotto il diluvio sconfigge la Juventus, regalando però lo scudetto alla Lazio; è sempre lui il tecnico del Brescia che, contro l’Atalanta, si rende protagonista di un clamoroso sfogo andando a sfidare la curva bergamasca che lo aveva coperto d’insulti, dopo il pareggio di Baggio. Atteggiamenti che fanno anche sorridere, ma che sono assolutamente in linea con la schiettezza del personaggio. Una linearità di comportamenti con i suoi giocatori che gli hanno valso la stima incondizionata degli stessi, a cominciare da Claudio Ranieri, suo “figlioccio”, ad arrivare a Pep Guardiola, che era stato suo giocatore a Brescia, e che invitò Mazzone alla finale di Champions League di Roma del Barcellona contro il Manchester United. Un profondo attestato di stima per quello che con il tempo era diventato il Patriarca degli allenatori italiani, forte di 792 panchine in Serie A, secondo dietro solo a Nereo Rocco, e di 1261 panchine ufficiali in tutta la sua carriera. Il saluto finale proprio a Guardiola: “Mazzone? Il più grande”.

Mazzone alla guida del Brescia, in uno dei momenti più famosi della sua carriera: la corsa sotto la curva atalantina nel derby lombardo del 30 settembre 2001, dopo il pareggio dei suoi allo scadere

Foto da Wikipedia.org

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