di Edoardo Petagna

Negli Stati Uniti d’America, nello stato della Pennsylvania, nella contea di Carbon, esiste una città che si chiama Jim Thorpe e deve il suo nome ad un campione pellerossa di football, baseball ed atletica leggera. La cittadina di Mauch Chunk, negli anni ’50, stava cercando un modo per uscire dall’anonimato e richiamare il turismo; il sindaco ed il consiglio comunale escogitarono di acquistare dall’ultima moglie e vedova, Patricia, i resti mortali del campione per ospitarli nel proprio territorio. Acquistate le spoglie, per alcune decine di migliaia dollari, mutarono il nome della città in Jim Thorpe City, dedicarono al campione un museo ed eressero un monumento in sua memoria. A noi italiani o europei, l’operazione può apparire strana ma gli americani sono molto disinvolti in questo genere di faccende, soprattutto perché le loro cittadine sono molto giovani e non hanno certo la storia secolare o millenarie delle città italiane ed europee.

Jacobus Franciscus Thorpe, abbreviato in Jim Thorpe, nacque il 28 maggio del 1887, o forse del 1888, da genitori pellerossa con ascendenti  francesi e irlandesi, sulle sponde del North Canadian River, nell’Okhaloma, a pochi chilometri da Shawnee. La madre, al momento del parto, vide un raggio di luna balenare nella capanna della riserva dove viveva e gli affiancò il nome indiano di Wa-to-Huk, ossia Sentiero Lucente, nella lingua algonchina, quella della nazione nativa cui apparteneva.

All’epoca, la Nazione Indiana era stata quasi definitivamente normalizzata e le ultime tribù ribelli erano state segregate nelle riserve. Nel 1887, era entrato in vigore il Dawes Allotment Act, che aboliva la proprietà collettiva delle terre nelle riserve, l’ordinamento sociale fondamentale per i nativi, ed imponeva la proprietà privata, distribuendo 160 acri a ogni famiglia; apparentemente, una svolta progressista, praticamente, una vera e propria truffa. I migliori appezzamenti furono stati assegnati ai coloni; i nativi pellerossa, tra i quali la famiglia Thorpe, ricevettero terreni scadenti, spesso malsani. Qualche anno dopo, nel 1890, l’esercito a stelle strisce compì l’ultimo massacro a Wounded Knee, sterminando centocinquanta Sioux, ponendo fine alle Guerre Indiane e decretando la sconfitta definiva della Nazione Indiana.

Jim, fin dall’età infantile, mostrò attitudine all’attività fisica che sviluppò crescendo nei boschi della riserva. Nonostante il nome suggestivo, la sua infanzia fu molto  travagliata; a otto anni perse il fratello gemello, Charlie, morto di meningite spinale e, poco dopo, anche la madre. D’allora in poi fu costretto a vivere un vita abbastanza grama e difficile, facendo innumerevoli lavori finché non trovò la via dello sport. Si racconta che gareggiò, casualmente, in una competizione studentesca, stupendo tutti nel superare un metro e settantacinque centimetri nel salto in alto, con addosso abiti normali perché non possedeva abbigliamento sportivo.

Fu iscritto alla Carlisle Indian Industrial School, una boarding school (scuola convitto), fondata nel 1879 da Richard Henry Pratt, dove gli studenti frequentavano le lezioni e dimoravano.

Richard Henry Pratt aveva fama di mente illuminata; invitato, nel 1892, a partecipare alla diciannovesima conferenza nazionale della “Carità e della correzione”, nel suo intervento affermò:

“Un grande generale ha sostenuto che l’unico indiano buono è quello morto e che la scelta finale della distruzione dell’uomo rosso è stata la scusa per numerosi massacri. In un certo senso mi trovo d’accordo con l’idea di fondo, ma solo con quella.

Con il fatto, cioè, che tutti gli indiani esistenti dovrebbero essere morti. Uccidi l’indiano che è in loro e salva l’uomo…. La Carlisle Indian School è una parte del progetto del nostro governo. Con le sue attività ha portato nelle tribù il germe del tradimento dei valori della cultura indiana e seminato lo spirito di lealtà nei confronti della nostra nazione. Allo stesso tempo, abbiamo provato a far sì che anche gli indiani possano fruire delle moltissime opportunità di crescita che ogni altro cittadino può cogliere ovunque. A Carlisle si insegna ai giovani indiani la lealtà per ciò che rappresenta il simbolo a stelle e strisce e poi si favorisce il ritorno di questi ragazzini “convertiti” tra la propria gente, affinchè il cambiamento diventi sempre più rapido e travolgente. In cambio, noi che siamo convinti che ogni uomo, bianco o rosso, abbia diritto alle stesse opportunità, gli garantiamo che se si sceglierà di vivere del sudore della propria fronte, non mancheranno le occasioni per aiutare la propria gente molto più che centinaia di altri indiani che preferiscono persistere sulla strada del loro vecchio modello culturale.”

E questo perché era una mente illuminata..!!

Tra il 1879 ed il 1918, oltre 12 mila bambini indiani furono obbligati a frequentare i corsi della Carlisle School. Strappati dal loro ambiente e rinchiusi in un contesto freddo e ostile, strutturato per privarli della loro cultura e della loro lingua, vessati con punizioni e divieti di ogni genere, solo l’8% degli studenti riuscì a concludere il corso di studi e a conseguire un diploma; il 20% riuscì a scappare e a fare ritorno alla propria tribù e quasi 200  persero la vita all’interno della scuola.

In pratica, l’ennesimo ed ulteriore strumento di annichilazione etnica nei confronti dei nativi americani.

Studenti indiani a Carlisle, prima e durante la frequenza nella Scuola

All’interno della scuola, Jim Thorpe riuscì ad eccellere e l’insegnante e allenatore, Glenn Warner, lo inserì nelle squadre di football e baseball, oltre che in quella di atletica, dove Jim era fortissimo nel salto in alto, in lungo, negli ostacoli, e nelle discipline del pentathlon e del decathlon.

Nella Carlisle Indian School, c’era un altro nativo indiano, Lewis Tewamina, molto dotato sulle lunghe distanze. Quando la squadra indiana si confrontò a  Easton con quella dell’Università di Lafayette, l’attesa degli spettatori era grande perché Thorpe godeva già di una certa fama. Restarono tutti stupiti allorché  allo stadio di atletica si presentarono soltanto Jim e Tewamina.

“Ma  la vostra squadra dov’è?” chiesero i padroni di casa.

“La squadra siamo noi.” – risposero i due indiani.

“Voi due soli?”

“Si, e vedrete che in due basteremo.”

Furono di parola: Tewamina vinse le corse del miglio e delle tre miglia, Thorpe tutte le altre gare.

Nel 1911, Jim era ormai un uomo alto un metro e ottanta per ottantasei chilogrammi, conteso a Carlisle dalle squadre di football e baseball.

Giocò a football come running back e trascinò la Scuola alle finali nazionali. Con Thorpe, la Carlisle si ritrovò ad affrontare la squadra di West Point dove giocava anche il cadetto Eisenhower, futuro Presidente degli Stati Uniti. La partita finì 27-8 per Carlisle, con 22 punti di Thorpe. Atleta completo, si impegnò anche con la squadra di atletica, e si qualificò per le Olimpiadi di Stoccolma in quattro specialità: pentathlon, decathlon, salto in lungo e in alto.

Giunto in Svezia con la squadra statunitense di atletica, sollecitato dall’allenatore a dormire di meno e ad allenarsi di più, si narra che gli rispondesse:

 “Ma coach,  ho appena sognato di allenarmi!”

Le performances ai giochi olimpici gli valsero due medaglie d’oro, nel decathlon (100 metri piani, salto in lungo, getto del peso, salto in alto, 400 metri piani, 110 metri ostacoli, lancio del disco, salto con l’asta, lancio del giavellotto, 1500 metri piani) e nel pentathlon (scherma; nuoto; equitazione; corsa; tiro a segno), un quarto posto nel salto in alto e un settimo posto nel salto in lungo. Una fotografia lo immortala all’Olympiastadion con ai piedi le due scarpe diverse con le quali ha appena corso i 1500 metri nella gara finale del decathlon. Gli avevano rubato le scarpe e lui si era arrangiato recuperandone una negli spogliatoi e l’altra in un bidone dell’immondizia. Anche i  calzini erano spaiati; uno più lungo dell’altro per compensare le diverse dimensioni delle scarpe !

Re Gustavo V di Svezia volle incontrarlo per fargli i complimenti di persona ma, quando andarono a chiamarlo, l’allenatore dovette inventare una scusa perché Jim era ubriaco fradicio e urlava:

“Sono un cavallo, sono un cavallo!”

Erano le prime avvisaglie della dipendenza all’alcol che, in seguito, lo avrebbe condotto alla rovina.

Re Gustavo lo incontrò il giorno dopo, e gli disse:

“Sir, lei è il più grande atleta del mondo.”

Jim, al momento lucido, rispose, sobriamente:

“Grazie, Re.”

Anche lo zar di Russia, presente a Stoccolma, volle incontrare Thorpe e gli regalò un prezioso calice intarsiato di gioielli. Al ritorno in patria, fu accolto come un eroe nazionale, sfilando in auto per le vie di Broadway a New York.

A precipitare dalle stelle alle stalle, fu un attimo. Il 6 febbraio del 1913, il giornale dell’Associazione Atletica Statunitense Amateur Athletic Union, pubblicò un articolo in cui Thorpe veniva accusato di aver esercitato lo sport professionistico in una squadra di baseball.

In effetti, nel 1909 e nel 1910, aveva giocato a livello semiprofessionistico ma per modesti compensi in denaro, si parlò di sessanta dollari, per aiutare la madre indigente. Thorpe si scusò e giustificò affermando:

“Ero uno scolaro indiano che non sapeva niente di queste cose”

Il regolamento delle Olimpiadi del 1912 prevedeva che qualsiasi contestazione dovesse essere presentata entro 30 giorni dalla cerimonia di chiusura dei Giochi e non quasi sei mesi dopo.

Ciò nonostante, il Comitato Olimpico Internazionale cancellò a Thorpe tutti i risultati e gli impose di restituire le medaglie, cosa che Jim fece. Nemmeno l’intervento dello stesso Pierre De Coubertin, che riconobbe la buona fede di Thorpe, riuscì ad evitare la sanzione.

Thorpe cominciò a giocare a baseball e a football, sport che si giocavano in stagioni diverse dell’anno. Nel baseball, sottoscrisse contratti molto ricchi e nel football fu anche presidente della Lega. Provò anche a giocare a golf, per migliorare la coordinazione occhio-mano nel colpire le palle da baseball; lasciò lo sport nel 1929.

“Non mi sono mai specializzato, ho provato tutto.” – diceva

Il pugile Jack Dempsey, campione mondiale dei pesi massimi, con ascendenze native Cherokee, suo amico e ammiratore affermava:

“Era il più grande tra tutti gli atleti. Avrebbe potuto eccellere in qualunque cosa”.

Terminata la carriera sportiva, ricadde nel vizio dell’alcool, diffuso endemicamente nei nativi pellerossa e lavorò come carpentiere e come comparsa nei film western. Dopo molti matrimoni ed otto figli, estremamente povero, ricevette poche migliaia di dollari per un film sulla sua vita. Il film fu realizzato, nel 1951, a Hollywood, col titolo di Pelle di rame e l’interpretazione di Burt Lancaster. Già malato di tumore, morì, in seguito ad un infarto, il 29 marzo 1953, nella roulotte dove viveva nei pressi di Los Angeles.

La famiglia, in particolare i figli, avrebbero voluto seppellirlo nello stato di nascita, l’Oklahoma, ma la vedova vendette le spoglie a due cittadine della Pennsylvania, Mauch Chunk e East Mauch Chunk, desiderose di ospitare morti illustri per attirare turisti. Nacque la città Jim Thorpe, dove furono a lui dedicati una statua e  un museo.

Il figlio Jack ha continuato a battersi per una sepoltura in Oklahoma ma, nel 2013, la corte della Pennsylvania ha stabilito che le spoglie mortali di Jim Thorpe debbano restare dove sono e la Suprema corte degli Stati Uniti ha confermato.

Il 13 ottobre 1982, il Comitato Olimpico Internazionale proclamò la sua riabilitazione ufficiale,  reinserendo il suo nome nell’elenco dei vincitori olimpici e, il 18 gennaio 1983, il presidente del CIO, Juan Antonio Samaranch, consegnò ai figli di Sentiero Lucente le riproduzioni delle medaglie vinte a Stoccolma. Il 30 Gennaio 1998, gli Usa emisero un francobollo commemorativo da 32 cents nel quale Jim Thorpe viene ricordato come la Stella di Stoccolma. Nel 2018, la zecca di Philadelphia ha coniato una moneta da un dollaro in cui sono rappresentati il volto di Thorpe e l’atleta che salta un ostacolo e che stringe un pallone da football con la C di Carlisle sul petto.

Di seguito, un brano tratto dal libro di Tommaso Giagni – Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe edizioni Minimum Fax 2023

……. Il corpo di Jim Thorpe ha la testa rivolta a Ovest. È dentro una bara scura e ingombrante, al centro di una capanna cerimoniale. La bara è stata pagata dall’impresa di pompe funebri, il titolare è appassionato di baseball. Quanto resta di Thorpe calza mocassini di pelle di daino, indossa una giacca di pelle di daino che è drappeggiata di perle, accanto ha un’ala d’aquila. Tiene, tra le grosse mani, tabacco consacrato da membri eminenti della sua nazione nativa – i Sac e Fox. Nell’aria fumosa c’è odore di mais, di carne di pollo, di manzo e di cervo. È la prima volta che tutti i figli dei suoi matrimoni sono riuniti. Invece non c’è nessuna delle mogli, neanche l’ultima – la vedova, Patricia. Sulle pianure appena fuori Shawnee, in Oklahoma, è la sera di sabato 12 aprile 1953.

All’inizio della settimana, il corpo è stato esposto in una camera ardente a Los Angeles. Circa tremila persone sono passate a omaggiare Jim Thorpe, molta gente di Hollywood. Sotto una lastra di vetro, stringeva un rosario, anche se da vivo non è mai stato un cristiano devoto. Ora i nativi anziani nella capanna celebrano riti della tradizione, intorno ai suoi resti mortali, tra antiche canzoni e preghiere. Su un fuoco sacro viene gettato tabacco. Qualcuno racconta vecchie storie a proposito di Thorpe. I figli, in accordo con Patricia, hanno deciso che verrà sepolto nel vicino Garden Grove Cemetery, a un miglio circa dalla casa in cui nacque, lo stesso cimitero dove sono le tombe del padre e del fratello Charlie. Il funerale andrà avanti per l’intera notte: solo con l’alba il corpo verrà trasportato fuori dalla capanna, attraverso una porta rivolta a Ovest per lasciare libero lo spirito. Ma il buio è appena sceso quando il funerale viene interrotto.

Patricia Askew detta Patsy è con la polizia, un carro funebre e alcuni uomini in giacca e cravatta. Un silenzio incredulo li circonda: nessuno riesce a fiatare perché l’interruzione è un atto sacrilego, un oltraggio al defunto. Impedisce allo spirito di andarsene, lo trattiene sulla terra. Poi la vedova parla e le sue parole risuonano incongrue come in certi sogni: dice che fa troppo freddo perché il marito possa rimanere lì. Dice agli uomini che l’hanno accompagnata di caricare il corpo e portarlo via. E davvero, poco più tardi, la capanna rimane vuota e le luci del carro funebre si allontanano sulla strada. Nemmeno i Sac e Fox più saggi, nemmeno dopo decenni, avranno argomenti teologici per spiegare dove si trovi lo spirito di Jim Thorpe.

Il corpo ricompare la mattina dopo, nell’incenso stucchevole della chiesa cattolica di Shawnee. Alla messa partecipano ottocento persone.

Probabilmente, Patsy ha trascorso sveglia le ultime ore, dopo aver disonorato la cultura del marito ed essersi avvalsa della forza pubblica per violare lo spazio più privato di una larga, sbrindellata famiglia. Ha deciso cosa sia meglio per lui, mettendo i privilegi di vedova davanti al parere dei discendenti. Soprattutto, pur mancando volontà scritte, davanti al probabile desiderio dello stesso Jim Thorpe. E secondo i principi dei Sac e Fox, è importante seppellire i morti dove da vivi desideravano essere seppelliti.

Quando la messa si avvia agli ultimi passaggi, Patricia deve contenere i pensieri frettolosi riguardo le prossime ore. È convinta che quel corpo, nonostante fosse già vecchio e ammaccato e ora si trovi in una bara, non smetta comunque di essere prezioso. Regalarlo sarebbe sminuirne la vita e la memoria: il cadavere deve guadagnarselo chi è pronto a riconoscergli un valore. Per questo, uscita dalla chiesa, Patsy corre a cercare acquirenti. È una specie di gara contro la decomposizione e il buio che seguirà, inevitabilmente, all’ultima scintilla d’interesse mediatico per Thorpe.

La prima trattativa è con lo Stato dell’Oklahoma, un’ipotesi lineare perché in quella terra Thorpe è nato. La vedova si azzarda a chiedere 25.000 dollari di denaro pubblico. Il governatore Johnston Murray è il primo uomo d’origini native alla guida di un esecutivo statale negli Usa, e conosce l’importanza di Jim Thorpe. Ma finisce per rifiutare: troppi soldi.

Patsy, delusa, non mostra cedimenti. Parcheggia le spoglie in una cripta a Shawnee, poi a Tulsa. Gli addetti delle pompe funebri le hanno spiegato che si conserveranno alla perfezione per almeno un anno e mezzo. Declina un’offerta, arrivata da un’istituzione nuova che punta a riunire celebri nativi americani in una hall of fame a Anadarko, sempre in Oklahoma. Patsy vuole un memoriale separato, che non abbia intorno figure importanti a distrarre – a contendere la concentrazione dei visitatori. È come se per lei il luogo di sepoltura di Thorpe debba rispondere a logiche di spettacolo.

Si orienta sulla Pennsylvania, seguendo il filo cronologico della vita di Thorpe. Ma nemmeno a Carlisle, la cittadina che può vantare di averlo allevato da studente e di averne scoperto il talento sportivo, si trova un accordo: le richieste della vedova sono considerate eccessive. Patsy va allora a cercare soluzioni nei dintorni. Tentativi senza vero criterio. Sbatte contro i rifiuti di Pittsburgh, di Harrisburg, di Philadelphia.

I figli di Thorpe, nel frattempo, non possono che aspettare furibondi lo svolgimento delle trattative. Insultati dalla violazione del rituale nativo, sono ora spossessati di qualunque decisione.

All’improvviso, poi, Patsy raggiunge un accordo per la sepoltura. Ce l’ha fatta. È trascorso quasi un anno dalla morte del marito. A comprare le spoglie sarà una cittadina dove Jim Thorpe non ha mai messo piede…..

FONTI:

The Globalist.it

Sergio Mura https://www.farwest.it

https://www.moneystamps.it/2018-1-dollaro-stati-uniti-jim-thorpe-fior-di-conio-sacagawea-e-nativi

https//:en.wikipedia.org

http://www.virtualstampclub.com/century2.html

https//:www.ilpost.it

Tommaso Giagni – Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe – edizioni Minimum Fax – 2023

Giorgio Mottana: Il più grande atleta del mondo -1970

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