dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) – DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO

di Sergio Giuntini

Mi dicono spesso che se Obama ora può correre per la presidenza, è anche merito nostro. Quello che io e i miei compagni abbiamo rappresentato a Città del Messico è stato come l’apertura di una strada, su cui poi ragazzi come Obama si sono potuti muovere con maggiore libertà, in un sistema che ancora non li rappresentava pienamente. Ci siamo sacrificati in modo che altri potessero avere un’opportunità.“ 

Sono riflessioni di Tommy Smith enunciate nel 2008, alcuni mesi prima dell’elezione di Barak Obama – il primo presidente “nero” della storia americana – alla “Casa Bianca”. Questo sì, a dispetto dell’abuso che si fa d’un simile aggettivo, un avvenimento epocale. La corsa presidenziale di Obama è stata infine vinta e, forse, a cominciarla sfrecciando nell’ Olimpiade “atzeca”, furono proprio Smith e John Carlos.  L’altro contestatore che lasciò una traccia indelebile nel ’68 dello Sport. 

I due protagonisti assoluti – 1° e 3° a ritmo di record del mondo sui 200 m. (19”83 a 20”10) – di un’edizione dei Giochi olimpici che non fece registrare boicottaggi. Ma dalla quale, coloro i quali rinunciarono a un boicottaggio che pure era stato preso in seria considerazione, trassero comunque tutto ciò che politicamente e culturalmente può ricavarsi da una simile modalità di protesta. 

La vicenda celeberrima – già ampiamente esaminata altrove e su cui non torneremo –  di Smith e Carlos, racconta quindi di un boicottaggio venuto meno. Di semplici, potenziali boicottatori. Conseguentemente ci soffermeremo prevalentemente sui fermenti che, tra il 1966 e il 1968, muovendo dalla questione razziale, percorsero lo sport afro-americano più consapevole: un’area di atleti radicali, legatasi organicamente alle battaglie per l’uguaglianza e i diritti civili. Due erano sempre state le tendenze che, rispetto alle discriminazioni patite, avevano diviso gli intellettuali neri d’America. Nel 1909 Medgar Evers fondò l’ ”Associazione Nazionale per il Progresso della Gente di Colore” (NAACP), che si batteva per una equiparazione giuridica con i bianchi. Nel 1920 Marcus Garvey diede vita all’intransigente “Movimento per il ritorno in Africa”. Tali diverse impostazioni, oltre a una terza di carattere più religioso e integralistico diffusasi successivamente, quella dei “Black Muslims” che perseguivano l’indipendenza e la separazione della “Nazione Nera” islamica, si rinvengono pure negli anni ’60, quando più acuto si fece il rivendicazionismo della minoranza di colore. 

Il lento allargamento della parità formale nei diritti (1954: Dichiarazione di incostituzionalità nella segregazione scolastica; 1957 Desegregazione elettorale; 1961 Desegregazione nei trasporti; 1963 Desegregazione nelle condizioni di impiego; 1964 Legge nazionale sui diritti civili) non bastava più. La discriminazione e la povertà continuavano a connotare le condizioni concrete di vita della popolazione nera, e il metodo non violento fu scavalcato dalla radicalizzazione del conflitto. L’assassinio a Menphis, il 4 aprile 1968, di Martin Luther King segnò la sconfitta del pacifismo. Il suo grande “sogno”, evocato nell’agosto 1963 al termine della marcia dei 250.000 su Washington, era stato spezzato. I “profeti disarmati” risultavano perdenti, per liberarsi dalle “catene” dei bianchi servivano altri mezzi, altre forme di organizzazione politica. 

Dopo l’uccisione di Malcom X (21 febbraio 1965) a opera di sicari del “Black Muslims”, Heuy Newton e Bobby Seale crearono pertanto nel 1966 a Oakland il partito marxista – favorevole alla lotta armata –  del “Black Panthers”, mentre Stokely Carmichael nel 1967 lanciava la parola d’ordine “Potere Nero”, “Black Power”. Lo slogan si rifaceva al romanzo omonimo di Richard Wright (1954), e nella sua teorizzazione Carmichael proponeva di contrapporsi anche violentemente, stringendo legami di solidarietà con i movimenti rivoluzionari “terzomondisti”, alla società americana dominante e razzista. Un progetto che suggestionerà Smith, Carlos, Evans e molti altri. 

Black Power

Tant’è  in un incontro che richiamò rappresentanti di 42 città e 36 stati, svolto a Newark dopo i disordini razziali dell’estate 1967, fu il “Black Panthers” a ventilare per primo il boicottaggio olimpico di Città del Messico.  A prefigurare questa presa di coscienza dello sport “colorato” fu tuttavia, nel 1966, un’affermazione agonistica di denso contenuto simbolico. Il successo, nel campionato NCCA di basket, dell’Università “Texas Western” di El Paso – allenata da un bianco senza pregiudizi, Donald Lee Haskins – su Kentuky, i “Wildcats” bianchi di Adolph Rupp. Nei “Miners” della “Texas University” giocavano 7 neri su 12: uno scandalo – al massimo sino ad allora le squadre di College ne schieravano uno o due a gara per minutaggi parziali -. E ancor più scandaloso fu il fatto che Haskins, in finale, mise sul parquet un quintetto interamente “All Blacks”. Per questo Pat Riley, il leggendario coach dei “Lakers” di Los Angeles, giungerà a definire quella partita la “Dichiarazione di emancipazione del 1966”.  L’obiezione di coscienza del pugile Muhammad Alì, che a Houston il 28 aprile 1967 rifiutò d’indossare la divisa per combattere in Vietnam, suscitò indubbiamente maggior risonanza; eticamente screditò ancor più gli USA “guerrafondai” in campo internazionale. Tuttavia nell’”immaginario collettivo” del popolo nero furono i campioni di El Paso a risvegliare dei profondi sentimenti d’orgoglio e appartenenza. In essi si riconoscevano politicizzati e no. I pacifisti alla Luther King e gli “arrabbiati” del “Black Panther”. Non sorprende dunque che pure la lotta di Harry Edwards, ex discobolo e giocatore di pallacanestro, professore di sociologia e “mente” della rivolta afro-americana nello sport, prendesse le mosse da quel “quintetto” di El Paso. Nel 1967 la formazione vittoriosa su Kentucky venne rapidamente smantellata. Haskins aveva osato troppo, si doveva ristabilire l’ordine. Una normalizzazione che spinse Edwards, docente all’Università di San Josè in California, a promuovere il boicottaggio dell’incontro di football tra la compagine del suo ateneo e quella della “Texas Western”. Un boicottaggio riuscito, giacchè il rettore californiano ebbe la saggezza di annullare quel match divenuto assai scomodo. 

Edwdars fu anche il “maestro” di Tommy Smith, John Carlos e Lee Evans,  studenti-atleti a San Josè. Per certi versi rappresentò per loro quello che Malcom X era stato per Muhammad Alì. Guida spirituale del campione del mondo dei massimi Malcom X, guida politica dei tre sommi velocisti Edwards. Allievi che impararono presto la lezione, come si evince da un’intervista di Dick Drake a Smith ed Evans pubblicata sul periodico specializzato Track & Field News nel 1967. Una fonte che per il suo particolare interesse – a metà tra il materiale storico e l’intensa testimonianza umana –  merita d’esser riprodotta integralmente: 

Domanda: C’è qualche particolare motivo che vi ha spinto a boicottare le Olimpiadi? 

Evans: Io penso che già parecchi negri comprendano quanto è accaduto. Quando ero alle medie non sapevo nulla, ma giunto al College ho capito tutto anch’io. 

Domanda: cosa comporterebbe per i negri, in pratica, un boicottaggio? O dovrebbe essere solo un atto simbolico? 

Evans: Dovrà semplicemente accadere qualcosa, e qualcos’altro potrà cambiare fino alle Olimpiadi del ’72. Se ora noi torniamo dai Giochi con una medaglia d’oro, siamo festeggiati per un mese. Poi diventiamo di nuovo uno fra i tanti. Un esempio: Bob Richards è commentatore televisivo. Perché nessuno ha ingaggiato Bob Hayes o Henry Carr? Io so già la risposta: se si reclamizza un prodotto con un negro, si deve sopportare che alcuni bianchi rinuncino ad acquistarlo. 

Smith: Ci sono state marce, proteste ed altre manifestazioni per le condizioni dei negri in America. Non credo che questo boicottaggio possa risolvere il problema, ma penso che la gente saprà, che noi non abbiamo più intenzione di lasciar stare le cose come stanno. Siamo molto orgogliosi del nostro popolo e vogliamo essere trattati in modo degno. Il nostro traguardo di atleti non è quello di migliorare la nostra condizione personale, ma quella di tutta la nostra gente. Dovete considerare il boicottaggio come un passo su questa via. In altre parole: se mi danno un morso, lo restituisco. Non staremo ad aspettare che i bianchi escogitino qualcos’altro contro di noi. Ho lavorato molto e a lungo per le Olimpiadi, e mi dispiace ora che non se ne faccia più niente. Ma penso che il boicottaggio sia una buona cosa, e vale portarlo avanti soffocando quel che può personalmente farci piacere. 

Evans: Siamo uomini e poi atleti. 

Domanda: C’è qualche gruppo o qualche personalità dietro questo boicottaggio

Smith: non lo so, ma personalmente non sono mai stato avvicinato da nessuno. Ogni negro deve decidere da sé. Perciò abbiamo indetto la Conferenza di Los Angeles. In definitiva non sono mica l’avvocato del boicottaggio. 

Domanda: Che possibilità di riuscita ha questo boicottaggio? 

Evans: I negri della California si assoceranno, malvolentieri, ma lo faranno. Ma ci sono negri anche negli altri 49 stati. Andrei con immenso piacere in Messico, ma sono pronto a fare questo sacrificio. 

Domanda: Cosa l’ha spinta ad assumere un ruolo attivo in questa situazione? 

Smith ed Evans: La riflessione. 

Domanda: Perché il boicottaggio è limitato ai Giochi olimpici? E le “high schools”? 

Evans: Le “high schools” sono solo una parte del Paese. Noi, penso, dobbiamo partire dall’alto. Non posso assolutamente comprendere perché gli USA abbiano votato la partecipazione del Sudafrica ai Giochi olimpici. I sudafricani hanno mandato qui Paul Nash. Se io volessi andare in Sudafrica, lì mi vieterebbero di gareggiare contro Nash. Ma lui ha potuto tranquillamente allinearsi alla partenza, qui, con noi. Prendo atto di essere un americano, ma non sono certo trattato da americano. Stan Wright, allenatore di Smith, gli ha scritto una lettera, ricordandogli che in primo luogo deve considerarsi americano e poi negro. Ma nessuno vede in me prima l’americano. 

Smith: Non è logico che Nash possa gareggiare qui, mentre Evans o Boston o io non possiamo gareggiare contro di lui in Sudafrica. Ora, se siamo tutti americani, come Ryun, perché questa disparità di trattamento, lì? Perché boicottiamo solo le Olimpiadi? Una gran parte dei negri è nei colleges, poiché lì guadagna uno stipendio. Così io perderei il fondamento della mia educazione. Senza di essa non potrei possedere quel bagaglio di conoscenze necessario a comprendere quel che è possibile fare per il mio popolo. C’è, naturalmente, dietro a ciò, anche un problema economico. In breve: c’è poco da prendere e molto da guadagnare a boicottare i Giochi olimpici, mentre per i colleges sarebbe l’opposto. 

Domanda: Come vi trattano i professori dell’Università di San Josè? 

Evans: Essi sanno che siamo i più veloci “niggers” del college. Parlano con noi perché siamo atleti. Il negro che passa davanti a loro non lo vedono nemmeno. 

Smith: Spesso vengono da me per congratularsi. Allora io chiedo loro: “Grazie per cosa? Per il mio matrimonio o per gli esami?” E loro: “No, per il record mondiale” Non parlano mai con te del tuo matrimonio o dei tuoi risultati universitari.

Evans: Tu sei solo un “nigger” veloce. Loro non dicono “nigger” ma lo pensano.   (continua)

John Carlos, Tommie Smith e Peter Norman (1968)

Foto da Wikipedia.org

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