di Edoardo Petagna

E’ il 10 settembre 1960 e i giochi della XVII Olimpiade moderna, quella che si sta disputando a Roma, sono quasi al termine; termineranno all’indomani. Si corre la maratona, la corsa sulla distanza di 42 chilometri e 195 metri che, secondo una tradizione, raccolta e sostenuta a fine Ottocento dal filologo e grecista francese, Michel Bréal, sarebbe stata percorsa da un soldato ateniese, di nome Filippide, dal campo di battaglia, la piana di Maratona, fino ad Atene, per annunciare la vittoria dell’esercito ateniese su quello persiano di Dario.

Il valoroso soldato, all’arrivo nell’agorà, stremato dalla fatica, avrebbe urlato:

Nike! Nike! Nenikekiam” ossia “Vittoria! Vittoria! Abbiamo vinto!”

e, subito dopo, per l’eccessivo sforzo, sarebbe caduto a terra, morto.

In suo ricordo, per onorarne le gesta, venne istituita la celebre corsa olimpica. Sottolineiamo che quest’uomo che, indubbiamente, aveva corso spinto dall’entusiasmo della vittoria era pur sempre un soldato, con indosso l’armatura e tutti i necessari accessori militari e, sicuramente, senza le scarpe Nike  – nonostante nell’annuncio la parola Nike fosse presente ! – e chiediamo lumi allo storico Erodoto (detto di Alicarnasso o di Thurii – Alicarnasso, 484 a.C. ; Thurii, circa 425 a.C.).

Erodoto descrive la battaglia di Maratona, combattuta nel 490 a.C., nel sesto libro delle Storie. Caddero seimila Persiani e circa duecento Ateniesi con alcune decine di opliti di Platea, la città alleata con Atene. I Persiani, dopo la sconfitta, tentarono di arrivare ad Atene per la via di mare ma fallirono nuovamente e si ritirarono. La vittoria dei Greci fu ricordata come il trionfo della libertà greca contro il dispotismo persiano. Erodoto non cita l’impresa di Filippide ma narra di un araldo, di nome Fidippide (piccola variante del nome) che era un corriere degli Ateniesi. Nei giorni precedenti la battaglia, Fidippide era stato inviato da Atene a Sparta per chiedere supporto agli eterni rivali spartani, nel supremo interesse di difendere la civiltà dalla barbarie. Erodoto racconta che egli corse da Atene a Sparta in due giorni, percorrendo oltre duecento chilometri. Gli spartani acconsentirono all’alleanza ma comunicarono che sarebbero arrivati sei giorni dopo, per rispettare la credenza che non si dovesse andare in guerra con la luna crescente. Il buon Fidippide compì lo stesso percorso all’incontrario, per riportare la posizione di Sparta, e gli ateniesi, alla fine, se la sbrigarono da soli col solo aiuto della piccola Platea !

Ciononostante, nella leggenda popolare è rimasta scolpita l’immagine del valoroso Filippide che percorre i quarantadue chilometri e cento novantacinque metri, annuncia la vittoria e poi, ahimè, muore !

Durante le prime edizioni dei Giochi olimpici, la lunghezza della gara era stata determinata con qualche approssimazione; fu dall’Olimpiade di Londra, nel 1908, che vennero fissati i canonici 42 chilometri e 195 metri, corrispondenti alla distanza dall’esterno dei cancelli del castello di Windsor al palco dei reali inglesi al White City Stadium, nel centro di Londra.

Alle Olimpiadi di Roma, la partenza fu programmata nel tardo pomeriggio, alle 17.30. Pur essendo il mese di settembre, il clima era ancora da piena estate, con caldo intenso; inoltre, gli organizzatori desideravano che la maratona di Roma passasse alla storia sia per il percorso,con partenza dal Colle Capitolino ed arrivo sull’Appia Antica, sotto l’Arco di Costantino, sia per la suggestione del tratto finale, illuminato dalle fiaccole e dai riflettori. Si partiva alla base della scalinata del Campidoglio; poi si percorreva Piazza Venezia, via dei Fori Imperiali, si passava vicino al Colosseo, accanto alle Terme di Caracalla e si proseguiva per la via Cristoforo Colombo, passando per l’EUR fino al Grande Raccordo Anulare. Un tratto sul GRA, e gli atleti si sarebbero lanciati sull’Appia Antica fino a Porta San Sebastiano, per raggiungere poi via dei Trionfi (oggi via di San Gregorio), passare di fronte all’obelisco di Axum e arrivare al traguardo finale all’Arco di Costantino.

Ai piedi del Campidoglio, si adunarono sessantanove concorrenti, provenienti da trentacinque nazioni; tra essi, undici africani. Il favorito dai pronostici era il sovietico Sergej Popov che, agli Europei di Stoccolma, due anni prima, aveva corso col tempo di 2h15’17”, la miglior prestazione mondiale sulla distanza. Da tener d’occhio, il marocchino Rhadi Ben Abdesselam che, due giorni prima, aveva partecipato alla gara dei 10.000 metri classificandosi quattordicesimo, il neozelandese Magee, il francese Mimoun, lo slavo Mihalic, il coreano Chang Hoon. 

Un po’ in disparte, parlottavano, fittamente, l’etiope ventisettenne, ex pastore, Abebe Bikila, un corridore magrissimo, alto un metro e 77 e dal peso di appena 50 chilogrammi, ora caporale della guardia del negus neghesti Hailé Selassié, ultimo Imperatore d’Etiopia ed il suo allenatore, lo svedese di origini finlandesiOnni Niskanen.

Bikila aveva il pettorale numero undici, scritto su una maglietta verde troppo corta per la sua altezza; era stato ripescato in squadra per l’infortunio di Wami Biratu, atleta infortunatosi poco prima della partenza per Roma. Era nato nel villaggio di montagna di Jato, il 7 agosto 1932, giorno della maratona olimpica di Los Angeles; da bambino, aveva percorso chilometri e chilometri per condurre al pascolo il gregge della famiglia. Si apprestava a correre la terza maratona della sua vita sportiva. La prima l’aveva portata a termine con un tempo non proprio eccellente, 2h39’50” ma, alla sua seconda prova, aveva corso in 2h21’23”, un ottimo tempo, per giunta ottenuto ad Addis Abeba, ad oltre 2400 metri di altitudine. Si presentò alla partenza a piedi nudi. Ci sono alcune versioni in merito a questa circostanza: una prima attribuiva l’assenza delle scarpe alle vesciche ai piedi prodotte dalle scarpette acquistate a Roma; un’altra all’idea dell’allenatore che, resosi conto dell’abitudine dell’atleta a correre scalzo, avrebbe ritenuto questa caratteristica utile sul selciato delle strade romane. In pratica, entrambe le versioni avevano un fondo di verità. Gli avversari, incuriositi, guardavano i suoi piedi neri, callosi ma in grado di superare la terra battuta, l’asfalto bollente, le pietre spigolose.

“Sono io quell’atleta ingenuo contro cui si coalizza una folla venuta dai quattro venti del cielo. Ho tolto le scarpe subito prima della partenza, e ho fatto la cosa giusta. Forse per dire al mondo che un uomo scalzo può batterne altri molto meglio vestiti La verità è che le scarpe mi fanno venire le vesciche e non mi permettono di spiegare le ali. Corro scalzo per sentire meglio cosa mi sussurra la strada….Niskanen mi raccontava la strada come si spiega un libro. Passerai di qui e poi di qua, mi diceva. Qui ci sarà da spingere per via del falsopiano che gli altri non vedranno, e più avanti dovresti recuperare qualche posizione.”

Dal libro di Sylvain CoherVincere a Roma. L’indimenticabile impresa di Abebe Bikila

Bikila e Niskanen avevano studiato bene il percorso. L’allenatore aveva notato che, a qualche chilometro dall’arrivo, transitando davanti all’Obelisco di Axum, trasportato dalle truppe italiane nella Guerra d’Etiopia a Roma come trofeo, la strada sarebbe stata in leggera salita verso l’arrivo sotto l’Arco di Costantino. Aveva consigliato a Bikila di inserirsi, fin dall’inizio, con il gruppetto che si sarebbe creato in testa, quasi sicuramente col marocchino Rhadi e, giunto all’obelisco,di sferrare l’attacco.

Conosco a memoria ogni minimo dettaglio del percorso; l’ho fatto tutto con papà – un modo di chiamare il suo allenatore- e soprattutto l’ho visto nelle notti passate a sognare di correre come corro adesso. Quante volte Yewebdar – la moglie –  ha riso delle mie gambe che si muovevano sotto le lenzuola! Mi lascio indietro i primi sampietrini unti dalla calura di agosto e dallo sfregamento incessante di mezzo secolo di pneumatici; passiamo poco lontano dal tempio di Giove, custodito nell’antichità non da leoni ma da oche. E già i nostri corpi si allungano come frecce e ci mostrano il cammino – l’azimut perfetto. Il Mondo ci ascolta, ci guarda in mondovisione.”

“….Corri nell’ombra del marocchino e non uscirne fino all’obelisco….”

Dal libro di Sylvain CoherVincere a Roma. L’indimenticabile impresa di Abebe Bikila

A diciotto chilometri dalla partenza, dopo un gara tranquilla e senza strappi da parte di nessun concorrente, Bikila e Rhadi presero l’iniziativa e si portarono in testa alla corsa. I due atleti sovietici, Popov e Vorobjov, non replicarono all’attacco, seguendo, rigorosamente, la tabella di marcia preparata dai loro tecnici sulla base delle condizioni climatiche e del percorso. Erano certi che i due battistrada, con il loro ritmo, sarebbero crollati fisicamente nel finale della gara. Purtroppo per loro, ciò non sarebbe avvenuto; Bikila e Rhadi correvano, l’uno davanti all’altro, senza alcun calo fisico.

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Si giunse sul Grande Raccordo Anulare; gli atleti invertirono la marcia per tornare verso la città, con i due africani che accelerarono e si staccarono. Alla luce delle fiaccole tremolanti, Abdesselam e Abebe sfilavano rapidi e agili lungo l’Appia Antica.

A Porta San Sebastiano, Rhadi cercò di allungare ma Bikila resistette fino all’obelisco di Axum.

Nella mente e negli occhi, il gas mostarda, i barili di iprite rovesciati dagli aerei italiani, le esecuzioni sommarie degli sciftà (i ribelli che combattevano contro l’occupazione fascista), le violenze contro donne e bambini. E le parole di Hailè Selassiè nel 1936 alla Società delle Nazioni:

“Sono venuto di persona a testimoniare i crimini perpetrati contro il mio popolo.”

Il marocchino perse un po’ di freschezza atletica e restò indietro di qualche metro; Bikila, giunto all’Obelisco di Axum, mise in atto il piano studiato con l’allenatore e sferrò l’attacco decisivo. Rhadi, ormai appesantito, non riuscì a replicare e Bikila trionfò, a piedi nudi, sotto l’Arco di Costantino, fermando il cronometro a 2h15’16″, nuovo primato del mondo. Rhadi giunse al traguardo dopo 25 secondi; i due sovietici, cercarono di riparare all’errore di valutazione ma forzarono troppo l’andatura e nel finale cedettero, superati dal neozelandese Magee, terzo in 2h17’18″2.

Abebe Bikila al traguardo della maratona di Roma del 1960
Foto Wikipedia
Arco di Costantino, traguardo della maratona di Roma del 1960
Foto Wikipedia

Dopo aver tagliato il traguardo Bikila, seppure esausto, continuò a saltellare dimostrando di avere ancora energie. La sua impresa fece il giro del mondo; l’etiope non soltanto era il primo campione olimpico dell’Africa nerama venne visto come il campione di un continente, l’Africa, che stava uscendo dal colonialismo e che voleva riscattarsi, sconfiggendoli pacificamente nelle competizioni sportive, dagli antichi colonizzatori europei.

Prima della partenza l’imperatore Hailè Selassiè aveva detto agli atleti etiopi:

“Vincere a Roma sarà come vincere mille volte.”

Abebe Bikila venne accostato a Filippide, in quanto messaggero che annunciava la liberazione dei neri e la trasformazione che stava avvenendo nel mondo con la nascita di decine di nazioni  che si erano affrancate dall’essere colonie ed erano divenute stati indipendenti.

Il successo a Roma cambiò la vita all’etiope che divenne eroe nazionale del suo paese e fu promosso sergente all’interno delle forze della Guardia Imperiale. Fu perfino composto un inno in suo onore, con una strofa che recitava:

“Abebe, sei un vero eroe, Abebe, sei la gloria dell’Etiopia, Abebe sei il sorriso del paese”.

Da sinistra Rhadi Ben Abdesselam Abebe Bikila e Barry Magee
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La medaglia, si dice, che fu lasciata nelle mani dell’imperatore in cambio di un anello di diamanti.

Nel dicembre del 1960, le guardie del corpo dell’imperatore tentarono un colpo di stato che, però, fallì. Alcuni ufficiali furono impiccati e lo stesso Bikila fu associato alla rivolta e imprigionato. A suo carico non emerse alcuna prova di partecipazione attiva e l’imperatore, ben lieto, lo liberò; non poteva e non voleva impiccare il più grande eroe del paese. Bikila continuò ad essere un maratoneta vincente e vinse anche la maratona alle Olimpiadi di Tokyo, nel 1964, stavolta con le scarpe, e si ritirò durante quella di Città del Messico, nel 1968. Al momento del ritiro sussurrò al connazionale Mamo Wolde: 

“Io non finirò questa corsa, ma tu vincerai.”

Cosa che poi avvenne.

Negli anni a venire, la sorte non gli fu amica. Nel 1969, Bikila fu vittima di un incidente stradale che gli tolse l’uso delle gambe. Nel 1972, partecipò alle Paraolimpiadi di Heidelberg nel tiro con l’arco. L’anno successivo morì, prematuramente, per un’emorragia cerebrale, a soli 41 anni.

Nella sua carriera sportiva ha disputato 15 maratone, di cui 13 concluse e 12 vinte.

Quanto a Niskanen, continuò a impegnarsi nel paese africano, dirigendo tra l’altro Alert, l’ospedale per i lebbrosi, e collaborando con Save the Children. Lo sport rimase, comunque la sua grande passione ed amore. Morì nel 1984, per un infarto, presenziando a un evento sportivo in Svezia, col cronometro ancora al collo.

BIKILA OLIMPIADI DI ROMA 1960 – YouTube

Nella storia delle Olimpiadi, tre atleti hanno vinto due medaglie d’oro nella maratona: Abebe Bikila – Etiopia (Roma 1960, Tokyo 1964), Waldemar Cierpinski – Germania dell’Est (Montreal 1976, Mosca 1980), ed Eliud Kipchoge – Kenya (Rio 2016, Tokyo 2020)

Nel film Il maratoneta di John Schlesinger, in alcune scene, Dustin Hoffman osserva il video di Bikila che corre ai Giochi olimpici di Roma.

Nel 2009 è stato prodotto il film biografico L’atleta – Abebe Bikila”, diretto da Rasselas Lakew e Davey Frankelcon Rasselas Lakew che impersona Bikila.

A Roma, nel 2010, in Via di San Gregorio, è stata scoperta una lapide in onore dell’atleta etiope.

Lapide, in Via di San Gregorio a Roma, che celebra Abebe Bikila

Sempre a Roma, nel 2010, nella Maratona del cinquantenario delle Olimpiadi, a trecento metri dal traguardo, Siraj Gena, atleta etiope, rallentò per togliersi le scarpe e vincere in 2h08’39” e disse: “Bikila per me è sempre stato una fonte di ispirazione enorme. È lui che mi ha dato la forza per vincere questa maratona e ho voluto sentire cosa si prova a superare la linea d’arrivo a piedi nudi, come ha fatto lui quella volta”.

Lo scrittore francese, Sylvain Coher, ha raccontato l’impresa di Bikila nel libro Vincere a Roma, edito da 66thand2nd – traduzione di Marco Lapenna

Fonti:

Camillo Fumagalli – Eco di Bergamo – 8 luglio 2021

Sylvain Coher Vincere a Roma, ediz. 66thand2nd traduzione di Marco Lapenna

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