Lo spauracchio della promiscuità nello sport femminile italiano dell’immediato Secondo Dopoguerra

di Marco Giani

Per quanto ai nostri occhi possa sembrare assurdo, per tanto tempo in Italia uno degli ostacoli principali all’attività sportiva femminile è stato lo spauracchio della promiscuità, agitato a ogni pie’ sospinto sia per accusare di immoralità le ragazze che, scendendo in campi abitati anche da coetanei maschi, potevano mettere in pericolo la propria “virtù”, sia per dar manforte ai molti genitori che impedivano alle figlie di fare sport, o anche solo l’ora di Educazione Fisica a scuola. Scriveva così nel 1950 il giornalista Antonio Ghirelli: «nessuna famiglia si scandalizza più di mandare le proprie ragazze in giro sulle spiagge d’Italia con i succinti bikini o le trasparenti camicette multicolori di mezza estate. Tutte, però, o quasi tutte le famiglie si mostrano turbate dalla sola idea che la signorina possa esibirsi in mutandine e maglioncino sui campi e sulle piste di uno stadio. Ma perché? Forse affiora, in questa resistenza, uno scrupolo che in fondo si può anche capire, se non giustificare del tutto: lo scrupolo della “promiscuità” di vita cui lo sport sembra avviare i suoi giovani adepti, non tanto per una malizia degli organizzatori (che in realtà non c’è), ma in forza di quello stesso straripante entusiasmo che possiede lo sportivo, al contatto con la natura e con l’inebriante atmosfera agonistica»[1].

L’altezza cronologica di questa citazione potrebbe forse stupirci, ma lo studio delle fonti ci mostra come la paura della promiscuità sportiva non accennò per nulla a smorzarsi dopo la fine del regime fascista, anzi, tornò ancora più potente nell’Italia a guida democristiana dell’immediato Secondo Dopoguerra. Ancora nel 1962, durante le vacanze invernali, il domenicano Reginaldo Francisco avvertiva lettori e lettrici dell’Osservatore della Domenica che «sciare è peccato». Di mezzo non c’era solamente, secondo padre Francisco, la carne: gli «sciatori mondani» (cioè quelli per diletto), infatti, si esponevano inutilmente «al pericolo di incidenti, ferite, rotture e altri danni fisici», nonché al «peccato di imprudenza, vanità e sconcertanti individualismi che portano a imprese solitarie spesso concluse tragicamente». Dopo aver citato l’eventuale peccato mortale di giovani madri che avrebbero potuto calzare gli sci apposta «per troncare una gestazione», il religioso terminava con una filippica finale contro «la responsabilità dello sperpero di denaro, i flirt tra sciatori e il ballo che si pratica impunemente e disinvoltamente nelle stazioni di sport invernali»[2].

L’accostamento fra flirts “sportivi” e ballo su una rivista cattolica non era casuale, essendo il secondo uno dei bersagli preferiti dei bigotti dell’epoca. Se dal campo cattolico ci spostiamo a quello della sinistra (dominato allora dal PCI togliattiano), nel quale al contrario il ballo era uno dei cardini delle attività di svago offerte nelle varie Case del Popolo – come raccontato nel bel libro di Antonio Fanelli, A Casa del Popolo. Antropologia e storia dell’associazionismo ricreativo – , ci troviamo di fronte ad un atteggiamento assai ambivalente. Da una parte, infatti, si trattava di un ambiente nel quale era ammesso un certo rimescolamento fra i due sessi, in occasione di grandi manifestazioni – come del resto era avvenuto qualche anno prima fra la gioventù intruppata dal fascismo, come ci testimoniano i flirts consumati durante i Littoriali dello Sport[3]. Visto il maltempo che aveva guastato le gare dei Campionati Nazionali UISP di Bologna 1948, i partecipanti e le partecipanti «si riversano nel centro di Bologna. Gli ospitali portici della città felsinea si riempiono così di ragazzi e ragazze, che in un clima di sana, libera e allegra promiscuità cantano le canzoni popolari e i canti di lotta partigiani»[4]. D’altro canto, però, anche a sinistra si stava attenti a tenere sotto controllo esperienze promiscue forti, che avrebbero potuto essere la galeotta occasione per incontri sessuali veri e propri. Questo il caso dell’attivista del Fronte della Gioventù Luciana Castellina, inviata nell’estate del 1947 a Praga per il Consiglio dell’Unione Internazionale degli Studenti. Tornata in Italia, Castellina venne severamente rampognata dal dirigente comunista Giuliano Pajetta per aver viaggiato in autostop in compagnia di tre ragazzi inglesi durante il Consiglio dell’Unione Internazionale degli Studenti quell’anno svoltosi a Praga. Ripensando all’episodio a distanza di anni, l’autrice de La scoperta del mondo scrive: «non riuscivo a capacitarmi di come una gita in autostop potesse evocare l’idea che andavo a letto con tutti. Da Trieste mi veniva una educazione mitteleuropea, aperta alla camaraderie fra maschi e femmine, ma anche molto puritana. Il PCI era invece impregnato di cultura popolare cattolica. E questa fu un’altra scoperta»[5].

Capiamo così perché, in ambito atletico, anche nell’UISP – l’ente di promozione d’area comunista-socialista nato nel 1948 – ragazzi e ragazze venissero tenuti ermeticamente divisi durante gare ed allenamenti. Una policy abbastanza assurda, visto che invece ciò non accadeva nell’ambito dell’escursionismo e dello sci dilettantistico, tanto da far scrivere allo storico dello sport Luciano Senatori che era come se l’UISP funzionasse «a compartimenti stagni, non comunicanti fra di loro»[6]. Dal 1949, infatti, l’Associazione Campeggi Escursionisti Turisti (ACET) aprì all’attività promiscua: «giovani e ragazze trascorrono intere giornate, talvolta più giorni, fuori dalle mura domestiche, lontani dagli occhi scrupolosi dei genitori». Gite in montagna e giornate passate sugli sci permettono anche discussioni e conoscenze … extra-sportive: come ricorda una testimonianza, «si parlava anche di amore, perché nel nostro gruppo tanti ragazzi e ragazze si erano conosciuti ed amati»[7]. Che a sinistra l’ambiente della montagna avesse ispirato sin da subito questa apertura è testimoniato anche da Luciana Castellina. Parlando, nelle sue memorie, del proprio amato dell’epoca, la giornalista ricorda di aver passato con lui «le vacanze del Capodanno 1945-1946 a Campo Catino, prima esplorazione sciistica del dopoguerra, dormendo tutti assieme – una decina se non più – nel gelido stanzone del rifugio, allora sperduto sulle aspre montagne ciociare»[8]. Anche prima della fondazione dell’UISP (1948), «le gite in campagna e le escursioni in montagna rappresentano i primi impegni organizzativi del Fronte della Gioventù e dell’Associazione Ragazze Italiane. Come nelle vecchie tradizioni dello sport proletario l’escursionismo e i primi tentativi di arrampicata su roccia sono occasioni socializzanti, e contribuiscono a rompere vecchi pregiudizi dello stare insieme tra sessi diversi. L’uscita delle ragazze dagli steccati domestici, il frequentare ragazzi per un’intera giornata o per più giorni lontano dagli occhi vigili dei genitori, rappresenta il venir meno da alcuni pregiudizi morali, e l’avvio di un primo cambiamento di abitudini e costumi»[9].

Descritta l’esistenza e la persistenza dello spauracchio, è interessante andare a indagare le conseguenze ben pratiche che esso aveva sull’attività sportiva femminile.

Per evitare il contatto coi coetanei maschi, le sportive erano costrette ad allenarsi separatamente, come ricordato dalla torinese Giuseppina Leone (n. 1934):  «Gli uomini avevano gli allenamenti separati. Le gare le facevamo insieme e, ogni tanto verso l’inizio delle competizioni, ci si allenava insieme e anche durante le collegiali c’erano quattro o cinque donne, uno o due maschi ma solitamente la preparazione atletica, se così vogliamo chiamarla, era separata: gli uomini da una parte e le donne da un’altra»[10]. Essendoci però, nell’Italia della Ricostruzione, assai ben poca disponibilità di campi d’allenamento e di impianti sportivi («la strada ha sostituito l’anello rosso», denunciavano i dirigenti UISP di Roma[11]), la separazione dei sessi portava inevitabilmente al sacrificio delle sportive, mai dei colleghi maschi. Dovendo salvaguardare i secondi, le prime rinunciavano ad allenarsi, o lo facevano in orari e modalità particolarmente scomodi.

Il primo caso, quello della rinuncia, è quello denunciato ancora nel 1966 dalla giornalista Fiammetta Scimonelli, e provene non a caso dalla provincia italiana, laddove cioè era più difficile per una ragazza dedicarsi al proprio sogno sportivo: «Qualche anno fa, a Terni, Nadia Mecocci, atleta nazionale e professoressa di ginnastica, non poteva usare il campo nelle ore libere dalla scuola, perché occupato dagli atleti. La moralità voleva che maschi e femmine si allenassero separatamente, quindi Nadia Mecocci rimaneva tanti giorni senza allenarsi. Lo stesso accade fra gli elementi di calibro inferiore, a Roma ed in molte altre parti dell’Italia centro-meridionale dove appunto si lamenta una scarsa partecipazione di ragazze all’attività [atletica]»[12].

Il secondo caso è quello ricordato da Giuseppina Leone: nella sua società «le donne si allenavano nei giorni dispari, i maschi in quelli pari. E la domenica, quando non c’erano gare, la mattinata veniva divisa a metà. Ovviamente, l’alba della domenica era sempre rosa»[13]. Nella Trieste del 1953 «la pallacanestro [femminile] rimane sempre una cenerentola e ogni tanto, recandosi a fare allenamento, le cestiste» della Ginnastica Triestina «trovano la palestra occupata, e devono limitarsi a fare passaggi e palleggi in “avancorpo”, cioè nel corridoio»[14]. Si tratta purtroppo di una dinamica di lunga durata, nella storia delle donne italiane: ancora nella Reggio Emilia degli anni Ottanta Milena Bertolini (n. 1966) e compagne calciatrici, campionesse d’Italia, erano costrette ad allenarsi a fine giornata, per ultime, dopo che il campo era stato dato a tutte quante le formazioni maschili della società, comprese quelle delle giovanili[15].

Col passare degli anni, in molte città (si pensi alla Milano della Julia Dalmatica) si arrivò a una soluzione alternativa, quella cioè della fondazione di società sportive esclusivamente femminili, che avrebbero così risolto alla radice il problema della scandalosa coabitazione fra sportivi e sportive. Fu la soluzione che attorno al 1950 venne adottata in molti casi dall’UISP, l’ente di promozione sportiva di sinistra che pure in quegli stessi anni si era mostrato molto all’avanguardia sul tema dello sport femminile, in netta opposizione alle chiusure mentali del mondo cattolico sull’argomento. Ciò che stupisce ancora di più, tuttavia, non è tanto la decisione in sé, quanto il fatto che essa venisse giustificata esplicitamente con toni trionfali dai dirigenti nazionali dell’ente di promozione, come ad esempio Giuseppe Sotgiu: «le famiglie guardano all’ora di ginnastica con preoccupazione, perché sanno che nessun vantaggio ne verrà al fisico e allo spirito delle ragazze, mentre potrà essere la scusa per qualche giovanile scappatella». Di conseguenza, «noi dell’UISP il problema lo sentiamo, ce lo siamo posto e ci sforzeremo di contribuire a risolverlo creando “Società sportive femminili” e inculcando nelle ragazze l’amore per le palestre, per le competizioni ginniche, per l’emulazione atletica»[16]. L’anno seguente Lidia Maiorelli dell’UDI confermava la strategia: «Società e gruppi sportivi esclusivamente femminili, possibilmente diretti da istruttori femminili, debbono essere la base organizzativa preferita poiché, vincendo il pregiudizio e il sospetto delle ragazze e dei loro genitori, acconsentano di creare vivai dello sport femminile […]. I circoli dell’UDI, le società dell’UISP, debbono impegnarsi nella costituzione delle società e dei gruppi femminili»[17]. La ghetizzazione delle sportive, dunque, come scelta necessaria per permettere a molte di loro un’esperienza altrimenti impossibile, visto il contesto familiare di molte. Se da una parte ciò pare effettivamente essere una decisione dettata da un sano realismo (basti il controesempio contemporaneo del crollo della pratica sportiva di base fra le musulmane francesi dopo il sorgere di vari divieti di indossare l’hijab durante le gare[18]), non si può evitare di pensarlo come un piccolo passo indietro nel cammino più ampio dell’emancipazione sportiva delle italiane. Dopo la metà degli anni Trenta la FIDAL aveva infatti organizzato a Rapallo i primi raduni misti[19], così che atleti ed atlete potessero allenarsi insieme sotto gli ordini di Boyd Comstock: un’esperienza avveniristica, per i tempi, tanto da venire ancora ricordata, a distanza di anni, da Claudia Testoni e da Ondina Valla. Se la prima già nel 1939 scriveva così ad Oberweger di essere «ben provvista di carta azzurrina, carta a mano… pressappoco come quella che compravi tu a Rapallo»[20], la seconda ancora nel 1989, intervistata, ricordava che «l’anno prima delle Olimpiadi di Berlino, nel ’36, facemmo un ritiro a Rapallo per gli allenamenti e quella volta eravamo insieme, maschi e femmine, nello stesso albergo»[21].

È tuttavia proprio la prospettiva storica che ci permette di capire, vedendolo in prospettiva, il significato dell’esperimento promiscuo di Rapallo, proposto dopo anni d’intensa promozione dello sport femminile, e di suo sdoganamento nell’immaginario nazionale, durante il Ventennio fascista: dopo il 1945, purtroppo, bisognava ricominciare tutto daccapo, nonostante la conquista del voto femminile e della democrazia. Solo vent’anni dopo, col Sessantotto alle porte, l’olimpionica azzurra Paola Pigni avrebbe potuto scrivere, sulle pagine della Gazzetta dello Sport, che, visti i recenti successi anche mediatici dell’atletica leggera maschile italiana, occorreva sostenere quella femminile «»

l’atletica leggera femminile «organizzando molte gare regionali o nazionali promiscue in modo che la gente, accorrendo per vedere l’ennesimo duello fra Ottolina e Berruti, veda e consideri anche i balzi della Trio, le tranquille prodezze della Ricci e le imprese di tutte le altre, fra le quali mi ci metto anch’io. Senza giudicarci donne fallite, che vogliono invadere un campo di esclusivo dominio del sesso forte»[22]. Già il fatto stesso che fosse finalmente un’atleta a prendere posizione sull’argomento, mostrando come l’elemento femminile si sarebbe solamente avvantaggiato dall’appoggiarsi a quello maschile, ci mostra come i tempi stessero veramente cambiando, in quell’Italia del 1965.

[1] Originariamente pubblicato come: Mille intrighi, La Gazzetta dello Sport, 16 dicembre 1965. Ripubblicato poi come «Paola Pigni “azzurra” e campionessa d’Italia» in: Massara, Salvatore (1966): L’atletica femminile in Italia e nel mondo. Napoli: L’Arte Tipografica, pp. 73-74.

Fotografia di copertina: Elda Franco (al centro, sorridente) in mezzo ad atleti ed atlete, Torino, 4 novembre 1946. Immagine tratta dall’Archivio Privato Elda Franco, completamente consultabile all’indirizzo https://sorelleboccalini.wordpress.com/le-fonti_elda-franco_i-due-album-fotografici/.


[1] Cit. in Luciano Senatori, Parità di genere nello sport: una corsa ad ostacoli. Le donne nello sport proletario e popolare, Roma: Ediesse, 2015, p. 147.

[2] Marta Boneschi, La grande illusione. I nostri anni Sessanta, Milano, Mondadori, 1996, p. 278.

[3] https://www.la-cross.org/2022/03/28/lilva-va-ai-littoriali-spigolature-sportive-dalle-memorie-di-ilva-domenici-baracchi-1a-parte/ .

[4] Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 136.

[5] Luciana Castellina, La scoperta del mondo, Roma, Nottetempo, 2011, p. 222.

[6] Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 148.

[7] Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 148.

[8] Castellina, La scoperta del mondo cit., p. 118.

[9] Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 115.

[10] Roberta Benedetta Casti: La campionessa Giuseppina Leone: la testimonianza di una velocissima donna italiana, in: Antonella Stelitano e Matteo Monaco (a cura di), Donna e sport nella storia d’Italia. Atti del VIII convegno nazionale SISS, Canterano, Aracne, 20202, pp. 85-96, pp. 94-95.

[11] Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 146.

[12] Cit. in Salvatore Massara, L’atletica femminile in Italia e nel mondo, Napoli, L’Arte Tipografica, 1966, p. 61.

[13] Marco Martini e Ludovico (2000): Un secolo di storie e di campioni. L’atletica in Piemonte dalle origini a Sydney 2000, Torino, Omega Arte, 2000, p. 144.

[14] Silvio Maranzana, Ricordi della Pallacanestro Femminile Triestina, Trieste,  Edizioni Pubbli-Service, 1993, p. 36.

[15] https://www.raiplay.it/programmi/azzurroshocking-comeledonnesisonoripreseilcalcio .

[16] Cit. in Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 149.

[17] Cit. in Senatori, Parità di genere nello sport cit., p. 151.

[18] Giorgia Bernardini, Velata. Hijab, sport e autodeterminazione, Alessandria, Capovolte, 2022, p. 129.

[19] Per delle fotografie da quello del 1938, vd. https://twitter.com/calciatrici1933/status/1137839170330738690 .

[20] Augusto Frasca, Infinito Oberweger, FIDAL, https://rivistaaccademiamds.files.wordpress.com/2015/12/infinito-oberweger-parte-1.pdf , pp. 59-61 .

[21] Sandra Artom e Anna Maria Calabrò, Sorelle d’Italia. Quattordici Grandi Signore raccontano la loro (e la nostra) Storia, Milano, Rizzoli, 1989, pp. 271-285.

 

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