dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) – DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO

di Enzo Pennone 

…Arrivò poi la Jugoslavia del maresciallo Tito che era sempre insofferente con gli uomini della Piazza Rossa, e fu seguita dal Kenia che in quegli anni lanciava la volata per l’indipendenza: Jomo Kenyatta dedicò una vita intera a picconare il protettorato britannico nel suo paese, organizzò la rivolta armata dei Mau-Mau che agivano nelle boscaglie della Rift Valley, e quando riuscì a far sventolare la nuova bandiera le Olimpiadi di Roma erano già passate da tre anni, il Kenia, che era ancora timoroso nello sport ma otto anni dopo il mondo olimpico lo avrebbe conosciuto nella sua sontuosità con i corridori un tempo guerrieri Masai…e poi passarono gli uomini della catena dell’Atlante e poi quelli che si tuffano nel Golfo di Guinea, i nigeriani, che la loro indipendenza dai soliti britannici la conquisteranno invece proprio al termine dei Giochi, seguirono gli olandesi e i norvegesi e poi i pakistani pure loro come gli indiani con il turbante in testa e già pronti per la finale del torneo di hockey contro gli avversari di sempre, ecco arriva  la forte Polonia -sempre cattolica per credo religioso e ancora comunista per quello politico- che nella sua capitale aveva accolto i firmatari del Patto anti-Nato… 

e poi fu il turno della Repubblica Araba Unita, Egitto e l’alleato Siria insieme se Allah vuole per sempre, così sperava il colonnello Gamal Ab el-Nasser capo degli “Ufficiali liberi” che sei anni prima aveva licenziato Re Farouk l’ultimo faraone dell’Egitto moderno, nel primo tentativo di unificazione politica del mondo arabo che avrebbe però avuto brevissima vita…e per gli studiosi dell’antico in tribuna ci furono solo pochi momenti da dedicare al pensiero di Cheope Chefrem e Micerino, a Tutankamen e alla regina Hacepsut, perché le altre rappresentative premevano… 

arrivò la Rodesia razzista e poi la Romania del Patto di Varsavia che un giovane Nicolae Ceausescu, allora numero due del partito e dello Stato avrebbe presto trasformato da implacabile mafioso balcanico in una “cosa sua”, che era anche la Romania di Mircea Roger il più piccolo dell’Olimpiade che saluta felice, aveva tredici anni e faceva da timoniere agli equipaggi del quattro e del due con, ed era pure la Romania di Jolanda Balas, la donna fenicottero che come Ceausescu aveva trasformato il salto in alto in una “cosa sua”… 

e mentre i rumeni e le rumene sventolavano i fazzoletti, seguite da San Marino e Singapore, e la Spagna riscuoteva la sua dose di fragorosi applausi fece la sua apparizione sul palcoscenico dello stadio il portabandiera degli Stati Uniti,  più precisamente il corpo di quell’atleta con mansioni di alfiere, che non era un corpo come quello di tanti altri atleti americani che marciavano dietro di lui, innanzitutto perché era un corpo dalla pelle scura e questo fatto di per sé rappresentava “una prima volta”, poi perché era un corpo bello come quello di una stella hollywoodiana, era un corpo muscoloso e snello nello stesso tempo,  e sia pur nel clamore suscitato dal passaggio della numerosa delegazione a stelle e strisce anche il possessore di quel corpo sembrò volesse conferire con Giovanni Gronchi, “mi chiamo Rafer Lewis Johnson, signor presidente, e sono fiero di portare il vessillo della mia nazione anche se in quella nazione io e la mia famiglia abbiamo dovuto lottare e lottiamo ancora per avere pari dignità di trattamento dei cittadini bianchi, quando avevo nove anni la mia famiglia si trasferì dal Texas (Kingsburg) in California, vivevamo in una casetta accanto alla ferrovia e in estate io e i miei fratelli lavoravamo nei campi raccogliendo uva, prugne e pesche. Allo sport mi indirizzò mia madre Alma, che quand’ero ancora adolescente riusciva anche a superami nella corsa. Sono alto 1.90 e peso novanta chili, e anche a seguito di queste misure gli allenatori mi consigliarono di provare il decathlon…io provai e la prova ebbe successo, al punto che sono diventato il primatista del mondo di questa specialità, e qui a Roma se ne vedranno delle belle perché ci sono due campioni come Yang Chuan-Kwang della Repubblica di Cina e Vasily Kuznyetsov il russo”… 

frattanto era entrato in pista il Sudafrica, e l’accoglienza non fu certo trionfale per il paese che praticava apertamente la segregazione razziale e che sarebbe stato espulso qualche anno dopo dalla famiglia olimpica, e seguirono il Sudan, Suriname, la Svezia e la Svizzera, la Thailandia, la Tunisia fresca di indipendenza e di costituzione repubblicana e prossima a conquiste sociali tra cui l’aborto legale che arriverà 13 anni prima che da noi, la Tunisia del Presidente Bourguiba che quella carica avrebbe tenuto stretta per quasi quarant’anni, e l’Ungheria fresca invece di sangue versato per difendere la propria libertà dai comandamenti del patto di Varsavia cui avrebbe obbedito per oltre quarant’anni… e poi la Turchia e poi l’Uganda… 

Boris Shaklin

e il clamore tornò quando entrò sulla pista uno studente di ingegneria di nome Yuri Vlasov, che reggeva con una mano sola il pesante vessillo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, e ai più quello sembrò un gesto arrogante di alterigia -vedete signori, noi del Cremlino abbiamo sempre qualcosa in più degli altri- comunque sia, arrogante o discreto che fosse, il futuro ingegnere minerario aveva una tale forza negli avambracci e nelle spalle da poter vincere a mani basse la prova del sollevamento pesi con 537 chilogrammi e mezzo nelle tre alzate record del mondo, e Vlasov e gli altri suoi compagni il giorno prima avevano ricevuto un messaggio dal segretario del Partito Kruscev, che in quanto a retorica se la batteva con Brundage “…saluto la gioventù sportiva amante della vita e che la fiamma olimpica accenda nel cuore dei popoli lo spirito di solidarietà e fratellanza…” e il compagno Kruscev ribadì il grande valore dei Giochi Olimpici perché “favoriscono il contatto fraterno tra gli sportivi di nazionalità diverse” e augurò a tutti i partecipanti “il miglior successo, nello sport come nel lavoro, negli studi e nella loro vita privata”. E fu tale il brivido provocato negli atleti dalle parole del compagno segretario che Vlasov per primo insieme a Boris Shaklin sublime ginnasta e ad altri compagni atleti si sentirono in dovere di ringraziarlo con queste parole: 

“Caro Nikita Sergejevic, il tuo saluto è pieno di interessamento per la pace e la felicità dell’umanità e ci incita a risultati sempre migliori, nello sport come in altri campi. Promettiamo al Partito Comunista, al Popolo sovietico, e a te, caro Nikita Sergejevic, di rappresentare la nostra patria nella XVII olimpiade con onore, e di impegnarci a rafforzare l’amicizia tra gli atleti di tutto il mondo”. Sfilarono ancora il Venezuela l’Uruguay e il Vietnam… 

e così, colmi di attrazione e di emozioni per tutte quelle storie diverse, gli spettatori si erano quasi scordati che all’appello dello speaker mancava ancora l’Italia, ma fu questione di un attimo, quando alle 17 e 14 minuti entrò con passo fiero e marziale da fare rizzare la pelle a tutti, uomini e donne, bianchi e neri, comunisti e capitalisti, l’alfiere nostro perché Edoardo Mangiarotti da Milano era uno che di sfilate olimpiche se ne intendeva come pochi avendone già viste e avendone già fatte ben 4 in altrettante edizioni dei Giochi a partire da quella di Berlino del ‘36 per 24 anni di fila fino a quel pomeriggio, e anche Mangiarotti pur teso all’inverosimile per non perdere neanche un momento la sua marzialità, si sentì in cuor suo di dire qualcosa a Gronchi, del tipo “la squadra è forte -signor Presidente- e ben equilibrata, comunque ci siamo noi schermidori che mettiamo una firma di fidejussione per le medaglie”, salutò con deferenza quasi militaresca al passaggio innanzi alla postazione presidenziale e si rammaricò con sé stesso perché “se avessi avuto con me la spada” pensava “sì che avrei fatto davvero un gran saluto, come solo gli schermidori riescono a farlo …” 

Terminata la sfilata l’Olimpiade si rintanò nella sua tradizionale e macchinosa liturgia fatta di discorsi ampollosi dal pulpito, e l’onorevole Andreotti scomodò i cinque cerchi “inizialmente simbolo di una romantica aspirazione unitaria intercontinentale, ormai realtà vivente che premia le fatiche, le amarezze ed i sacrifici di tutti i pionieri di questa moderna crociata di incivilimento dei rapporti tra gli uomini…”: cavolo, manco Kennedy sarebbe riuscito a parlare così, fatta di giuramenti a partecipare ai Giochi quali concorrenti leali e ossequienti delle regole che li governano cui soltanto un gigante buono e ingenuo come Adolfo Consolini poteva prestare credito, una litania di cerimoniali astrusi di proclami e di speranze, in una parola l’inattaccabile retorica olimpica nutrita di frasi trite e ritrite tra cui il posto d’onore spettava a quella per cui “ai Giochi l’importante è partecipare perché l’importante nella vita non è vincere ma lottare”. 

Frattanto l’ultimo dei 1.199 tedofori Gianfranco Peris era entrato nello stadio e di gran carriera si era proiettato verso i 92 scalini per raggiungere il tripode, e qui teso in volto ma soddisfatto aveva eseguito il suo compito. 

E il giorno dopo le gare ebbero inizio, bando alle ciance era la cosa più importante per tutti o quasi tutti, per gli atleti per i familiari degli atleti per gli allenatori per i dirigenti per gli spettatori per le nazioni, per gli americani che volevano riprendersi la prima riga nella graduatoria delle medaglie, per i sovietici che a quella prima riga si erano affezionati, per i tedeschi comunisti che volevano far capire al mondo che anche se portiamo la stessa canottiera noi siamo quelli della Deutsche Demokratische Republìk e che se la seduzione capitalista continua a portarci via i compagni nostri tra un anno, giorno più giorno meno, saremo costretti ad alzare un muro che ci separi da quelli dell’Ovest, per i cinesi di Taipei che pregavano che lo vincesse Yang il decathlon, che gioia sarebbe per noi e che umiliazione per Mao, ma la preghiera non fu ascoltata perché Yang Chuan-Kwang perse il decathlon per soli 58 punti, 8.392 a 8.334,  nella gara più avvincente dell’intera Olimpiade che fu di Rafer Johnson o del suo corpo, così come per una briciola di punteggio finale, 115,95 a 115,90 Takashi Ono perse il concorso di ginnastica dal biondo Boris Shakhlin  e per qualche centesimo di secondo o per qualche appannamento della vista dei giudici l’americano Larson perdette i 100 stile libero contro l’australiano Dewitt. Australiani che, come avevano già fatto intravedere quattro anni prima, rappresentarono il vero incubo per gli americani nella piscina dello Stadio del nuoto, con tre nomi che sarebbero stati scritti con inchiostro indelebile nella storia olimpica, Konrads Rose e la ribelle Dawn Fraser campionessa tre volte, a Melbourne a Roma a Tokio. 

I pakistani non vedevano l’ora di prendere a mazzate la palla sul prato del Velodromo, perché quell’ora avrebbe potuto significare la rivincita tanto sognata sugli indiani, il cambio della guardia dopo 32 anni, e fu Naaser Bunda l’eroe nazionale a marcare l’uno a zero decisivo… 

Cassius Clay non vedeva invece l’ora di prendere a dolci cazzotti il polacco finalista, pugni teneri pugni gentili quelli di Cassius, lungi da me l’idea di farvi del male, come lungi da me l’idea di partire per il Vietnam a fare la guerra… 

Muhammad Ali

Le gare furono la cosa più importante anche per la signora Blanche che si teneva informata su quello che combinava la sua figliola Wilma, una ragazza ventenne che da piccola aveva contratto la polio e da adolescente l’aveva sconfitta perchè lei, la madre, donna testarda, non accettava che la ventesima dei suoi 22 figli nata come gli altri nel ghetto nero di Clarksville dovesse camminare tutta la vita con le stampelle, e quella ragazza nei quindici giorni romani avrebbe fatto perdere la testa non solamente a Livio Berruti ma a un’infinità di altre persone, come ricordò Elio Trifari nel giorno in cui lei passò ad altra vita “quell’estate romana di 34 anni fa, lunga e dolce, tenera e intensa per tanti di noi che scoprivano di persona, o alla Tv, il fascino dei Giochi, segnò anche il momento di una sorta di innamoramento collettivo: di Wilma, della gazzella nera che sbancò l’Olimpiade e la corsa, ci sentimmo tutti amici, complici, fidanzati se non amanti, estasiati nell’ammirare quelle membra flessuose, quell’incedere felino e regale assieme che coniugava l’essenza della corsa e la gioia di liberare la propria vitalità, così repressa e minacciata nell’infanzia”.  

Le gare furono la cosa più importante pure per Dave Sime, velocista americano che affrontò la finale dei 100 metri col pensiero che il Dipartimento di Stato prima di partire lo aveva nominato “prima spia ufficiale in ambito olimpico” con l’incarico esplicito di avvicinare il saltatore in lungo ucraino Igor Ter Ovanesian e convincerlo a rinnegare pubblicamente la Bibbia comunista per rendere omaggio alla statua della Libertà…ma Sime perse la gara per qualche centimetro e non riuscì a combinare nulla con l’ucraino… 

Le gare contarono un po’ meno per Harold Connolly e Olga Fikotova, lui di Somerville vicino Boston e lei di Praga che quattro anni prima a Melbourne si erano innamorati pazzamente, e dopo aver convinto le autorità ceche a fare uno strappo alle regole della cortina di ferro avevano coronato il loro sogno d’amore, e allora a Roma che ci importa se arriviamo lui 8° e lei 7^, ce ne andiamo in giro per la città in carrozzella… 

In giro per la città e poi per l’Appia antica, il 10 Settembre, ci andarono pure due rappresentanti del continente nero, Abebe Bikila e Rhadi ben Abdesselam, per coronare un sogno anziché d’amore di gloria olimpica, ci riuscì il primo guardia dell’imperatore d’Etiopia, che entrò in Roma vittorioso e a differenza delle truppe del Duce scalzo e disarmato… 

E il giorno dopo si concluse la 150^ gara del programma olimpico, e si conclusero i Giochi, ci fu un’altra cerimonia altri discorsi si fecero altre promesse che non sarebbero state mantenute, ci fu la sfilata meno numerosa ma altrettanto bella come quella di quindici giorni prima, e infine comparve sul tabellone la scritta “Arrivederci a Tokyo” tra quattro anni per un’altra bella e interessante Olimpiade, ma niente a che vedere e a che spartire con “la Grande Olimpiade” del 1960. (Fine)

Foto da Wikipedia.org

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