dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014) – DALLA RICOSTRUZIONE AL SESSANTOTTO

di Sergio Giuntini

Drake effettuò la sua intervista nel novembre 1967, un giorno prima dell’Assemblea che in un tempio battista di Los Angeles riunì circa duecento atleti di colore. Le tesi di Edwards a sostegno del boicottaggio, riprese nelle espressioni fortemente critiche di Tommy Smith e Lee Evans, prevalsero largamente. Non mancarono però, all’interno della comunità sportiva di colore, diverse voci dissenzienti. In disaccordo con le posizioni di Edwards, invitando a una maggior moderazione, si dichiararono ex campioni dello spessore di Jesse Owens, Rafer Johnson, Bob Hayes, e tra quelli in attività Ralph Boston – primatista mondiale del salto in lungo –  e Charlie Greene – tra i più accreditati “sprinter” del momento -. 

Boston ribattè così a Smith ed Evans: “Cercherò di ricondurre sulla terra alcuni miei amici. E’ insensato pensare di prepararsi per quattro anni ad un’Olimpiade per poi boicottarla”. E Greene affermava: “La domanda fondamentale è se uno è americano o no. Io lo sono, e perciò andrò in Messico”.   

Il consenso di cui godeva Edwards si basava sull’esser non solo l’”ideologo” del boicottaggio, ma di un più articolato “Programma olimpico per i diritti umani” al quale aveva assicurato il suo appoggio il medesimo Martin Luther King. Adesione che Avery Brundage, con sprezzante sarcasmo, liquidò alla stregua d’un tentativo del pastore battista – Premio “Nobel” per la Pace nel 1966 – di “farsi pubblicità”.  Tra i suoi molteplici obiettivi quel “Programma” si poneva l’irrigidimento delle sanzioni sportive applicate al Sudafrica e, non a caso, la destituzione del razzista Brundage da presidente del CIO. 

Avery Brundage (Londra 1948)

Il 16 febbraio 1968 gli atleti che si riconoscevano nelle posizioni di Harry Edwards, cui si unirono anche sette sovietici invitati a gareggiare al “Madison Square Garden”, boicottarono le competizioni indoor dell’”Athletic Club” newyorkese: il più blasonato d’America, forte di 8000 soci nessuno dei quali nero perché lo Statuto dell’anziana società – costituita l’8 settembre 1868 – non li ammetteva.  Idem nel 1968, allorché Arthur Ashe vinceva gli Internazionali d’America, al “West Side” Tennis Club. E sempre a New York, in quegli anni, esisteva anche una “Police Athletic League” che, mischiando paternalismo da bianchi illuminati e integrazionismo alla “zio Tom”, si occupava del recupero dei giovani di colore per mezzo dello sport.  

Nel marzo 1968 la rivista Life diffuse un sondaggio condotto tra i massimi atleti universitari afroamericani che confermava la loro disponibilità al boicottaggio, e il seguente  7 luglio anche il reverendo Jesse Jackson diede indicazioni in tal senso. Ma avvicinandosi la scadenza olimpica il fronte contrario ai Giochi s’incrinò. In una votazione tenuta tra i selezionati olimpici di colore dell’atletica leggera, le istanze “partecipazionistiche” di Boston ebbero il sopravvento. I boicottatori si ridussero a un terzo, 12 su 36. E Smith, Carlos ed Evans, per non rompere l’unità interna del gruppo, desistettero dalle risoluzioni adottate a Los Angeles a novembre. Fu Harry Edwards, in un convegno del “Black Panthers” a fine estate ‘68, a renderne notizia, precisando che per contestare le discriminazioni razziali negli Stati Uniti gli atleti avrebbero comunque portato una fascia nera sul braccio destro. Fascia che venne poi sostituita da un distintivo del “Programma olimpico per i diritti umani”. 

La marcia indietro per rispettare i voleri della maggioranza non significò rinnegare i propri convincimenti. Anzi, si deve alla forzosa rinuncia al boicottaggio integrale la clamorosa azione politica sostitutiva – attuata il 16 ottobre 1968, nel corso delle  premiazioni dei 200 – di Tommie Smith e John Carlos. Quella che, abbattendo definitivamente i tabù neutralistico-sportivi, desacralizzando il retorico ritualismo olimpico, s’insinuerà nei testi di storia contemporanea come la protesta del pugno chiuso in un guanto nero. Le “Pantere Nere” di Seale e Newton salutavano in quel modo, tuttavia con i palmi guantati Smith e Carlos volevano altresì evitare di “sporcarsi” le mani dovendo eventualmente stringerne una di Brundage. Le scarpette che recavano con sé verso la premiazione non volevano pubblicizzare alcun marchio. Bensì vendicare un’ennesima recente, ingiustizia inflittagli dai “bianchi”. La revoca d’un primato mondiale sui 200, per un problema regolamentare di chiodi in sovrannumero,  stabilito da Carlos (19”91) a Echo Summit il 12 settembre 1968.  

Ogni dettaglio di quella protesta era stato curato, rispondeva a un cifrario semiologico: i piedi scalzi, i pantaloni della tuta rialzati quasi al ginocchio, il foulard al collo, il capo reclinato, i pugni serrati, i guanti, le scarpette.  La comunicatività emozionale di quell’atto recitato silenziosamente fu percepita, decodificata ovunque, trasmettendo un messaggio chiaro di solidarietà con i disagi e le frustrazioni del popolo afroamericano. Nel contempo espresse con prepotenza la rivoluzione politicoculturale innescata dal ’68. Ha scritto in merito Augusto Illuminati:     

La protesta dei due atleti ebbe un enorme rilievo mondiale […] e si iscrisse nella galleria dei memorabili gesti che tracciarono mediaticamente il 1968. Certo, non è una novità. Quante sequenze storiche le ricordiamo perché incastrate e riassunte in un’immagine simbolica o in una frase performativa – il dado è tratto di Cesare, la Libertà a seno nudo sulle barricate del 1848, il miliziano morente di Robert Capa sul fronte di Cordoba. Il 1968, però, moltiplicò il numero e il peso di tali atti, non li collegò obbligatoriamente a grandi figure storico-epocali ma li disseminò in una miriade di protagonisti, di prese di parola e irruzione nello spazio pubblico. Al podio olimpico si affiancarono i palcoscenici dei concerti (il denudamento di Jim Morrison, le chitarre spezzate di Jimi Endrix), le presidenze delle assemblee studentesche…La diffusione e l’innovazione dei mezzi di comunicazione di massa contribuì moltissimo, senza dubbio, e gettò subito un sospetto di banalizzazione, ma per l’essenziale si trattò di una democratizzazione radicale della soggettivizzazione in una dimensione del comune. In altri termini fu rimodulato in termini di massa e di sovversione quel concetto di onore che un tempo aveva contrassegnato i ceti aristocratici o l’etica del politico. 

La presenza sul podio di Smith e Carlos, che irrideva l’ ”onore”  tradizionale e quello sportivo in particolare, doveva fare e fece molto più male di un boicottaggio. La coppia di velocisti dell’Università di San Josè riuscì così appieno nel suo “boicottare”, essendoci. A riconoscerglielo il Comitato organizzatore messicano e il CIO, i quali, nel timore di ulteriori disordini e contestazioni nel loro solco, optarono precauzionalmente per una modifica dell’abituale cerimonia di chiusura, limitando a sei il numero di rappresentanti per nazioni. E un nuovo riconoscimento, non meno significativo, gli provenne da un altro indomabile combattente per i diritti dei neri d’America: Arthur Ashe. Il grande tennista che, di Tommy “Jet” Smith e John Carlos “Primero”, ebbe a dire: 

“Il loro gesto è stato un faro di speranza e d’ispirazione per un’intera generazione”. (fine)

Nella foto in copertina il sociologo Harry Edwards. Foto da Wikipedia.org

Arthur Ashe (1964)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *