da Il Mondo – Anno V Numero 1 – Gennaio-Marzo 2024

di Edoardo Petagna

La finale dell’ultima Coppa del Mondo di rugby si è giocata lo scorso 28 ottobre (2023) allo Stade de France di Parigi. Si sono incontrate le rappresentative nazionali del Sudafrica e della Nuova Zelanda ed è stata la ripetizione di un’altra finale, quella del 1995. Nel 2023, come nel 1995, hanno vinto i sudafricani ma la vittoria del 1995 viene ricordata come una pagina di Storia, non solo sportiva, dell’intero continente africano

Le prime due edizioni della Coppa del Mondo di rugby si giocarono nel 1987 e nel 1991. La squadra sudafricana, composta da soli giocatori bianchi, gli Springboks (lo springbok è un’antilope tipica della zona), fu esclusa per la politica di segregazione razziale nei confronti della popolazione di colore. Uomini e donne neri, nonostante fossero la maggioranza, erano costretti a vivere in aree segregate, erano privati dei principali diritti umani, da quello del lavoro a quello dell’istruzione, erano costretti ad utilizzare servizi pubblici, come ad esempio i trasporti, separati dai bianchi: vigeva la legge dell’apartheid.

Gli afrikaners, discendenti dei coloni olandesi, tedeschi e francesi e fautori del Partito Nazionale- National Party, South African – nonostante la comunità internazionale avesse dichiarato l’apartheid un crimine internazionale contro l’umanità, governavano, soffocando brutalmente le proteste del popolo di colore. La maglia verde e oro con l’emblema dello springbok, di tutte le rappresentative nazionali, era, per la popolazione nera sudafricana, il simbolo dell’oppressore; nessun giocatore di colore poteva far parte delle squadre nazionali sudafricane. Gli afrikaners avevano assunto quei colori e quel simbolo come l’icona sportiva della loro supremazia razziale.

Nelson Mandela, dopo aver trascorso ventisette anni in carcere, per il suo impegno civile e politico contro l’apartheid, fu scarcerato, nel 1990, dal presidente Frederik de Klerk che aveva già avviato una serie di riforme a favore della popolazione di colore. Furono entrambi premiati, nel 1993, con il Nobel per la Pace e, nel 1994, si tennero in Sudafrica le prime elezioni democratiche. Mandela divenne il primo presidente nero e de Klerk, che fu il suo antagonista alle urne, gli fece da vicepresidente fino al 1997. L’apartheid si poteva considerare formalmente conclusa, ma nel Paese permanevano forti tensioni sociali. Mandela si applicò a fondo per favorire la conciliazione tra bianchi e neri, fortemente criticato da questi ultimi che lo ritenevano più incline a compiacere i bianchi che a impegnarsi sui loro diritti. La disputa della Coppa del Mondo di rugby in Sudafrica fu un momento di svolta per l’intera nazione sudafricana. La squadra di casa, per la prima volta ammessa a partecipare, raggiunse la finale da disputare contro la Nuova Zelanda. Durante la competizione fu adottato un nuovo inno nazionale, un misto tra quello del periodo dell’apartheid, ovvero Die Stem, e Nkosi Sikelel’ iAfrika, un inno di liberazione panafricano del movimento anti-apartheid.

L’emblema dello springbok, invece, sopravvisse. Tutte le rappresentative sportive nazionali lo avevano sostituito con la protea, un fiore tipico sudafricano; l’unica a non adeguarsi fu proprio quella del rugby; i bianchi non erano disposti a rinunciare a quel simbolo.

Lo stesso Nelson Mandela si schierò con i bianchi e, il giorno della finale, indossò la maglia tradizionale con il logo della piccola antilope tra le critiche e lo stupore dei compagni di partito.

Oggi, sulla maglia della nazionale sudafricana di rugby campeggia a destra lo springbok e a sinistra la protea.

Alla finale, all’Ellis Park, assistettero 63000 tifosi, in prevalenza bianchi, e lo spettacolo fu memorabile. I tempi regolamentari terminarono in pareggio, 9 a 9; a sette minuti dalla fine dei tempi supplementari, sul 12 a 12, un drop di Joel Stransky diede la vittoria per 15-12 ai sudafricani.

Mandela consegnò la coppa al capitano della squadra, Francois Pienaar che disse:

“Sono fiero di avere vinto per i 43 milioni di sudafricani: tutti insieme per un grande Paese.”

Ancora Pienaar, anni dopo, alla morte di Mandela, affermò:

“When the final whistle blew, this country changed forever – Quando è suonato il fischio finale questo Paese è cambiato per sempre.”

Martin Meredith, nel suo libro “Nelson Mandela – A biography” scrive:

“L’intero Sud Africa è esploso in festa, con i neri gioiosi come i bianchi. Mai prima d’allora i neri avevano avuto motivo di mostrare un tale orgoglio per gli sforzi dei loro connazionali bianchi. È stato un momento di fusione nazionale frutto delle idee e degli sforzi di Nelson Mandela.”

Mandela, nonostante le divisioni e le disuguaglianze economiche e sociali, che persistono tutt’oggi, aveva dimostrato al mondo che bianchi e neri potevano sentirsi un unico popolo e che il rugby poteva diventare lo sport di tutto il Paese.

Nel 2000 ai Laureus World Sports Awards, Mandela dichiarò:

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione. E’ più potente dei governi nel rompere le barriere razziali, è capace di ridere in faccia a tutte le discriminazioni.”

Nel 2009, il film Invictus, diretto da Clint Eastwood, ha narrato al grande pubblico la Coppa del Mondo di rugby del1995. Due straordinari attori, Matt Damon e Morgan Freeman, hanno interpretato i ruoli di Francois Pienaar, l’allora capitano degli Springboks e di Nelson Mandela. I due furono anche candidati all’Oscar come migliore attore.

Realtà e finzione cinematografica. La somiglianza tra Morgan Freeman e Nelson Mandela è impressionante
 

Il titolo Invictus, maldestramente tradotto in italiano con L’Invincibile, è un termine latino e significa “non vinto”, “mai sconfitto”. Invictus è un’ode facente parte di una serie di poesie, pubblicate per la prima volta nel 1888, nel Book of Verses – “Libro di Versi“, dal poeta inglese William Ernest Henley. L’ode, in origine, era senza titolo; fu lo scrittore e critico letterario Arthur Quiller-Couch a intitolarla così, quando la incluse nella sua antologia della poesia inglese, Oxford Book of English Verse (1900).

I versi dell’ode, citata nel film, erano molto amati da Nelson Mandela e gli diedero conforto spirituale durante gli anni della sua prigionia.

Non importa quanto stretto sia il passaggio,

Quanto piena di castighi la vita.

Io sono il padrone del mio destino:

Io sono il capitano della mia anima.

Prima della finale di Parigi, il capitano, Siya Kolisi, in quest’occasione un nero, ha detto:

“Sentiamo il nostro paese dietro di noi…Se vinceremo, vincerà tutta l’Africa.”

E così è stato; la Rainbow Nation – la Nazione Arcobaleno – come la definì l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace nel 1984, per comprendere tutte assieme le undici etnie e lingue diverse riconosciute del Paese, ha vinto ancora e, in tutta l’Africa si è cantato e danzato per la vittoria.

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