di Raffaele Ciccarelli

Scorrendo le infinite pagine della Storia del Calcio ci si imbatte in migliaia di volti, di personaggi, che di questo sport sono stati miti diventando leggende.

Sono tanti i campioni che si potrebbero citare, da Alfredo Di Stefano a Pelé, da Diego Armando Maradona a Franz Beckenbauer a Johan Cruijff, e nominiamo giusto coloro che ormai assidono nell’Olimpo, in rappresentanza di quanti quel posto aspirano a raggiungere.

Tra l’altro, noi qui ci siamo dedicati alla massima espressione calcistica, ma leggende devono considerarsi anche quanti magari non sono usciti dall’ambito locale, ma alla Storia hanno contribuito: i grandi personaggi sono al vertice, ma le ampie basi sono formate dai tanti che rappresentano le fondamenta.

Tutti giocatori depositari di quel particolare gesto tecnico, di quel particolare momento capace di estasiare gli appassionati, rapiti come quando si ascolta la perfetta armonia di una musica di Johan Sebastian Bach, tumultuosi se si ascolta Wolfgang Amadeus Mozart o cupi se alle orecchie e all’anima arriva qualche sinfonia di Ludwig Van Beethoven; oppure ancora estasiati se ci si perde nello sguardo misterioso, magico e ricco di significati nascosti della Monna Lisa di Leonardo da Vinci.

C’è da dire, però, che il rimbalzare del pallone negli anni non ha visto protagonisti solo nobili pedatori, ma anche “spacciatori” di sapienza calcistica montata ad arte, soprattutto per spillare soldi o raggiungere la notorietà, in pratica quelli comunemente conosciuti come bufale, e anche qui l’elenco potrebbe essere lungo.

Poi c’è, infine, chi nella storia del calcio ha avuto un talento particolare, unico, legato a un numero se vogliamo a sua volta perfetto, almeno nella sua forma, zero, e c’è uno che in questo campo li batte tutti, e difficilmente potrà essere superato: Carlos Henrique Raposo, detto “Kaiser”.

È quanto si può leggere nel pur lungo curriculum di questo “giocatore”, zero in tutto e per tutto, eppure, come vedremo, ci sono nomi di club anche importanti che si sono potuti, nel tempo, assicurare le sue “gesta”.

Aveva un solo obiettivo fin dalla fanciullezza Carlos Henrique Raposo, praticamente fin dai suoi primi passi che mosse per le vie di Rio Pardo, il comune dello Stato di Rio Grande do Sul che vide i suoi natali: diventare un giocatore di calcio.

Fu così che già all’età di nove anni, è nato nel 1963, si tesserò per le giovanili del Botafogo, per poi passare a quelle del Flamengo.

Fin qui tutto normale considerando che parliamo di un ragazzino brasiliano che in pratica, come tutti i meninos cariocas, gioca a calcio già nella culla.

Il dio del pallone, però, doveva essere distratto e guardare da qualche altra parte quando nacque Carlos, perché dimenticò di instillare nei suoi geni l’elemento fondamentale: il talento.

Raposo, però, doveva ostinatamente diventare un giocatore professionista, e il saper giocare, il saper solo trattare un pallone, diventava un dettaglio succedaneo.

Complici un bell’aspetto fisico e l’amicizia, ma anche la complicità, di alcuni campioni che ricambiava con altri favori, riuscì a farsi tesserare per il Puebla, società calcistica messicana, i cui scout erano rimasti impressionati in allenamento da Raposo, e sarebbe curioso capire cosa li colpì, perché anche in allenamento il Nostro evitava accuratamente di mettere in mostra le sue “doti” calcistiche.

Fatto sta che, dopo aver iniziato la sua serie di clean sheet, come si chiamano oggi le serie di partite in cui una squadra non subisce gol, ottenne l’ingaggio nel Botafogo di Rio de Janeiro, la squadra dove aveva iniziato nelle giovanili, ma naturalmente causa presunti lunghi infortuni, il campo non lo vide mai.

Intanto si era fatto una fama, soprannominato Kaiser, forse per la vaga somiglianza con Beckenbauer, e ci perdoni il dio del calcio per l’accostamento, forse perché il suo fisico ricordava quello di una bottiglia di birra messicana, Birra Kaiser appunto.

Una fama che però travalicava il campo di gioco, che appunto non vedeva mai, per approdare alla vita notturna e alle belle ragazze, dove spesso veniva scambiato per Renato Portaluppi, o Renato Gaucho come più era conosciuto.

Questi era un attaccante che militò anche in Italia, vestendo la casacca giallorossa della Roma, ma è rimasto nella storia del club della capitale più per le imprese notturne di playboy che di quelle del rettangolo di gioco, in cui passò quasi inosservato.

Quasi come lo stesso Raposo, ma Renato almeno a calcio giocava davvero, e presenze e gol, anche nella Nazionale verde oro, sono lì a testimoniarlo.

Per Carlos Kaiser Raposo no: resisteva pervicacemente lo zero assoluto, ma nonostante questo arrivò anche l’ingaggio addirittura in Europa, quando fu tesserato per il club francese del Gazelec Ajaccio.

Qui ricevette un’accoglienza degna di un grande campione, e come tale alla presentazione era previsto si cimentasse in qualche palleggio, ma anche un tale, semplice, gesto tecnico era fuori portata per Raposo, che però abbondava in genio: prese i palloni e li lanciò tra il pubblico salutandolo, meritandosi l’ovazione dei tifosi.

Naturalmente di giocare non se ne parlava, scadimenti di forma da recuperare con trainer personali o presunti infortuni erano all’ordine del giorno.

Un’altra caratteristica vantava Raposo, oltre al genio e alla faccia tosta: quella di essere bravo a intessere relazioni, e grazie a una di queste con un’azienda francese riuscì a ottenere un ricco contratto dal Fluminense, mantenendo, ovviamente, lo zero alla voce presenze.

Dopo una stagione al Vasco da Gama il passaggio in Argentina, all’Independiente di Avellaneda, anche se il club smentisce questo tesseramento, e poi negli Stati Uniti con gli El Paso Patriots, prima del ritorno in Brasile, al Bangu.

Qui, dalla vasta aneddotica di una “carriera” così variegata e movimentata possiamo trarre un altro racconto al limite dello stupefacente, che dimostra il vero talento di questo personaggio: quello di essere un millantatore, un furbo, in parole povere un imbroglione.

Capita che, a questo punto bisogna scrivere “secondo la leggenda”, sponsor principale e sostanzialmente presidente del Banguzão fosse certo Castor de Andrade, non esattamente uno stinco di santo, che aveva costruito la sua fortuna creando un vero impero del gioco d’azzardo illegale.

Durante una gara che il Bangu stava perdendo, impose di far scendere in campo Raposo: sudori freddi da parte del Nostro, che però durante il riscaldamento si inventò una rissa con i tifosi, facendosi espellere prima di entrare in campo.

Motivo? Disse al presidente che aveva sentito delle offese verso di lui e, considerandolo un secondo padre, si era buttato nella mischia per difenderne l’onore.

Conseguenze? Lacrime presidenziali e prolungamento del contratto, oltre all’ostinata resistenza dello zero.

Portata alla luce tutta la sua gigantesca truffa, non ha mai sentito in dovere di scusarsi o giustificarsi perché, dice, “le squadre illudono un sacco di giocatori, e qualcuno doveva pur vendicarli”.

Cos’altro aggiungere? Nulla, solo inchinarsi al genio e alla furbizia, e allo zero, il solo vero talento di Carlos Henrique Kaiser Raposo, il calciatore fantasma.

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