Spigolature sportive da “Maldafrica” di Lea Pericoli (I)

di Marco Giani

Come prevedibile, nel suo Maldafrica. I ricordi della mia vita (Venezia, 2009), la tennista Lea Pericoli mette sì al centro i primi anni della sua vita tutti quanti passati lontano dalla patria europea dei propri genitori, ma svela pure qualche interessante particolare autobiografico che può permettere agli studiosi di vedere in controluce le radici in parte un po’ anomale dell’esperienza sportiva di questa leggenda della racchetta.

Lea, nata a Milano nel 1935, cresce con la sua famiglia ad Addis Abeba, dove il padre, imprenditore, si era stabilito per motivi di lavoro. Se l’intento assolutorio nei confronti del colonialismo italiano in Africa Orientale viene esplicitato sin dal primo capitolo (vd. ad es. il passaggio che si legge a p. 19: «un’esistenza priva di problemi, tipica di quegli anni trascorsi nelle colonie, vissuta nel benessere non soltanto di noi privilegiati ma anche di quello degli indigeni che, almeno a quei tempi, venivano risparmiati dalle carestie. In Etiopia nessuno ha mai sofferto la fame durante l’occupazione italiana»), è interessante andare a vedere come la figlia dipinge lo sguardo che sentiva su di sé da parte di Filippo Pericoli: «[…] molti anni più tardi […] un giorno, in maniera molto coraggiosa e aggressiva, mia sorella Luciana disse a papà: “Tu sei un grande misogino!”. Lui rimase sorpreso. Aggrottò la fronte, ci pensò un attimo, poi sentenziò: “Ti sbagli, picinin. Io non ho niente contro le donne. Il problema è che nella vita ognuno deve rimanere al proprio posto”. Nostro padre era davvero convinto che i cani dovessero stare con i cani, i servi con i servi, le bambine con la mamma a imparare come ci si comporta in casa e in società. Non mi indignai, non ebbi mai reazioni. Arrivai a considerare le opinioni di mio padre affermazioni inoffensive anche quando scuoteva la testa rivolgendosi alla mamma per sottolineare: “Che peccato! Con il carattere che ha, Lea avrebbe dovuto essere un maschio”. Forse era vero. Io avevo voglia di emergere, di primeggiare. Desideri che sono stati la molla costante di tutta la mia vita […]» (p. 41). Le parole di Filippo Pericoli sono storicamente significative, sia perché sono l’ennesima testimonianza di come le bambine e le ragazze esuberanti nell’Italia del Ventennio e dell’immediato Secondo Dopoguerra venissero viste come problematiche dagli stessi genitori[1], sia perché l’aspetto ritenuto preoccupante non era tanto quello fisico o quello sessuale (la femminilità, o l’orientamento sessuale), ma più specificatamente quello del «carattere». Non a caso, è la stessa tennista che, ragionandoci sopra, individua nella «voglia di emergere, di primeggiare» un aspetto all’epoca considerato ben poco femminile, e che come vedremo senza alcuni successivi incontri probabilmente Lea non avrebbe potuto coltivare a pieno nella società italiana coloniale e post-coloniale di Addis Abeba.

Filippo Pericoli, per altro, non era un genitore particolarmente chiuso, per l’epoca, anzi: provò ad esempio a «trasmettermi la passione per la caccia, ma non ci riuscì. Soltanto una volta provai a sparare, con le cartucce a pallini era facile. Ammazzai una povera faraona, rimanendoci talmente male che da quel giorno non ci ho mai più provato». Anche in questo caso, Lea ci tiene a sottolineare una differenza di genere, ossia che «il compagno di caccia preferito di papà era mio fratello Dino, l’unico figlio maschio» (p. 47). Soprattutto, il padre, incarcerato dagli Inglesi durante il secondo conflitto mondiale, al ritorno fornisce alla figlia l’indispensabile supporto per la sua futura passione sportiva: «Ad Addis Abeba papà aveva trovato una villa bella e grande e stava arredandola. Avremmo avuto un parco, una casa per la servitù e un bellissimo campo da tennis. Non avevo idea di cosa fosse un campo da tennis e di quale tipo di destino mi avrebbe per sempre legata a questo sport» (p. 63).

Lea inizia a giocare a tennis quando il papà torna a casa da lavoro, contro di lui o contro suoi amici ed amiche, trovando in questo sport una dimensione finalmente accettabile per il suo essere distante dai canoni della femminilità dell’epoca: «Adoravo il tennis ed ero particolarmente orgogliosa di cimentarmi con gli uomini. Giocare con le signore era molto meno interessante. Il peggio era che consideravo noioso anche ascoltarle. Quando la mamma invitava le sue amiche a prendere il tè, per salvarmi da quei pomeriggi barbosi avevo escogitato un gioco segreto che mi divertiva tanto. Mentre la mamma offriva i pasticcini io mi mettevo per terra a trafficare con le bambole. Il divertimento era quello di dirottare le conversazioni di quelle vittime ignare» (p. 104). Lea ricorda però la particolarità di questi primi anni d’apprendimento, ossia l’altezza sul livello del mare del campo, cosa che le procura alcuni problemi di salute che mettono a rischio lo stesso proseguimento dell’attività: «Da piccola ero una bambina molto gracile. A dieci anni [=1945] i miei genitori mi proibirono di giocare a tennis perché svenivo. Su quel campo di terra battuta di Addis Abeba a 2400 metri d’altezza mi impegnavo troppo: correvo, correvo e, a un certo punto, provavo un orribile senso di nausea e venivo travolta da un capogiro. Allora, mollando la racchetta, mi avviavo verso il cancelletto in cerca di salvezza. Però non ci arrivavo! Il mondo diventava nero e quando riaprivo gli occhi tutti i grandi erano accalcati attorno a me. Al terzo svenimento i miei genitori non mi lasciarono più giocare. Il professor Rizzotti aveva suggerito che, considerando l’altitudine, era meglio evitare certi sforzi ad una bambina. Il problema era aggravato, diceva, dalle tonsille che avrei dovuto togliere» (p. 171).

Nel Secondo Dopoguerra Filippo Pericoli riesce ad ottenere le concessioni etiopi di Fiat, OM, Olivetti e Piaggio. L’introduzione della Vespa ad Addis Abeba ha a tal punto successo che il governo del negus lo nomina Direttore dei Trasporti d’Etiopia: «Come figlia del Direttore dei Trasporti d’Etiopia, io ebbi la patente a quindici anni [= nel 1950]. Guidavo con molta attenzione. Non ebbi mai incidenti. Adoravo guidare. Mi classificai tra i migliori nella prima gimcana che gli italiani organizzarono dopo la guerra ad Addis Abeba» (p. 82). Oltre all’apertura mentale del genitore, l’episodio è interessante in quanto ulteriore tassello della persistenza, nell’Italia coloniale post-1945, di pratiche sportive tipiche del Ventennio. Così come le ragazze italiane ad Asmara continuavano a giocare in gonna a pallacanestro fra di loro (senza l’inclusione delle coetanee eritree) nel biennio 1947/1948[2], Lea partecipava ad una gimcana automobilistica, cioè ad una pratica di leisure sportivo tipica dell’Italia fascista, cui era considerato normale che partecipassero anche le ragazze dell’alta società[3], le uniche che all’epoca potessero permettersi l’accesso ad un’automobile.

Infine, i capitoli iniziali di Maldafrica ci offrono un ultimo interessante ricordo, legato questa volta all’abbigliamento, nel quale la novità di genere dei pantaloni sportivi femminili (necessari per l’equitazione ad un certo livello) si mischia con la tradizione africana dell’abito maschile etiope: «Addis Abeba aveva un grande mercato indigeno, questo lo ricordo molto bene anch’io perché in quel mercato c’era un intero reparto riservato ai sarti. Ci andavo quando dovevo farmi cucire un paio di calzoni da cavallerizza. Il sarto ti faceva scegliere il tessuto, il colore, prendeva le misure e, nel giro di mezza giornata, non di più, il pantalone era pronto. D’altronde, i pantaloni alla cavallerizza erano il pezzo forte dei sarti in Etiopia, perché il costume nazionale allora era fatto da quei pantaloni, da una specie di camicia senza collo e da una futa» (p. 101).

Fotografia di copertina tratta da https://www.controcopertina.com/2021/lea-pericoli-chi-e-la-tennista-che-ha-sconfitto-due-tumori-85678 .


[1] Per ulteriori testimonianze, vd. M. Giani, Aspettarsi meraviglie dalla propria piccola Trebisonda: Il ruolo della famiglia nella pratica sportiva femminile del Ventennio, https://doi.org/10.5070/C9121039529  .

[2] La vicenda è raccontata nell’ultima sezione della Part 1 di M. Giani, The Girls’ Team Game. Tales from 1920/1940s’ Italian women’s basketball, https://www.playingpasts.co.uk/articles/gender-and-sport/the-girls-team-game-tales-from-1930-1940s-italian-womens-basketball-part-1/ .

[3] Per una rassegna di fonti giornalistiche dell’epoca, vd. la gallery https://twitter.com/calciatrici1933/status/1020344294723538944 .

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