di Marco Giani

Osservando con attenzione le foto di Arianna Fontana riproposte dai media nazionali nelle ultime settimane prima per celebrare i trionfi alle Olimpiadi Invernali di Pechino 2002 e poi per narrare le successive polemiche innescate dalla stessa pattinatrice di Sondrio, si sarà forse notato lo smalto tricolore sfoggiato dall’azzurra più medagliata della storia delle Olimpiadi (11 fra ori, argenti e bronzi), una volta dimessi i guanti bianchi indossati durante la gara.

L’uso delle smalto tricolore da parte di sportive nostrane è stato recentemente registrato da Antonella Stelitano nel suo interessante e documentatissimo Donne in bicicletta (Portogruaro, Ediciclo, 2020). Parlando infatti della vittoria iridata di Marta Bastianelli ai Mondiali femminili di ciclismo su strada di Stoccarda 2007, la studiosa trevigiana nota: «anche Marta segue da alcuni anni una nuova moda fortuna tra le ragazze della nazionale: ha le unghie dipinte d’azzurro, come Giorgia Bronzini, che conquista un bronzo» (p. 307). Ad uno sguardo superficiale, il fenomeno parrebbe per nulla interessante dal punto di vista della sociologia e della storia dello sport, e anzi assimilabile in tutto e per tutto a quel sessismo profondo di cui è impregnato il giornalismo nostrano, e di cui proprio Stelitano offre un’ampia documentazione, dedicando ad esempio un paio di pagine alla “scandalosa” cerniera del body abbassata che fece conquistare un quarto d’ora di celebrità mondiale all’azzurra Paola Pezzo alle Olimpiadi di Atlanta 1996 (pp. 290-291). Eppure, ad uno sguardo più attento, non è proprio così.

Prima di tutto, si tratta di una decisione della stessa Bastianelli, non imposta da una società o da un manager desideroso di mettere in bella mostra la propria tesserata: come tale, il gesto va perlomeno indagato, soprattutto se non vogliamo ridurre le sportive solo ed esclusivamente a quello che dicono, ma considerare anche quello che fanno col proprio corpo, non solo in termini di risultati sportivi. Dalla lotta per un costume da bagno ai calzoncini per le atlete, dal body per le ginnaste alle iconiche unghie portate in pedana da Florence Griffith alle Olimpiadi di Seul 1988, le sportive hanno, volenti o nolenti, sempre “silenziosamente” lanciato un messaggio cinèsico (cioè riguardante la cinesìa, il linguaggio del corpo) al pubblico con quel corpo che spesso ha ossessionato i nemici dello sport femminile. Le recentissime Olimpiadi di Tokyo 2020 (2021), con la scelta del body più coperto indossato dalle ginnaste tedesche, ha portato a galla una tendenza importante degli ultimi decenni: rispetto al passato sono sempre di più le sportive stesse a decidere la gestione del proprio corpo di fronte al pubblico – in passato, al contrario, la scelta ad es. di coprirlo o al contrario di svelarlo era quasi sempre presa non dalle dirette interessate, ma dai dirigenti uomini. Si potrebbe citare la proposta (poi ritirata) datata 2004 dell’allora presidente della FIFA Joseph Blatter di fare indossare degli hot pants alle calciatrici per “vendere” meglio il prodotto ai mass media; o, per rimanere in Italia, alla lotta intrapresa da Mabel Bocchi «per imporre nel basket femminile l’uso di normali pantaloncini in luogo dei succinti voyeuristici slip d’allora. Le cestiste, sosteneva, dovevano essere giudicate unicamente per quello che sapevano fare in campo e non per altre meno nobili qualità» (Sergio Giuntini, Paola Pigni. Liberarsi correndo, Roma, Ass.I.T.A.L. , 2021, p. 42).

Il secondo punto d’interesse di questa pratica è legato alla sua specificità di genere. Mentre lo scandalo della divisa femminile (che mostra o che scopre il corpo) è generato anche dal confronto con quella maschile – da qui la recente richiesta avanzata dalle giocatrici di pallamano da spiaggia della Norvegia di abbandonare il bikini per poter utilizzare i pantaloncini dei propri colleghi maschi -, in questo caso, essendo l’uso dello smalto socialmente accettato in Occidente solamente per le donne (come dimostrato dalle polemiche generate durante tutto il 2021 dal noto cantante Fedez), le sportive hanno avuto un campo di azione inedito, in cui muoversi originalmente, senza nemmeno potersi confrontare con quanto avevano fatto in precedenza gli sportivi. Al netto dell’ovvia differenza di contesto, si ripensi a come, durante la Seconda Guerra Mondiale, le donne della Resistenza potevano usare in maniera politicamente significativa capi di vestiario in quel momento non socialmente accettati indosso ai propri compagni di lotta, come in questo racconto della partigiana Iva Gualdi: «Il primo maggio non si festeggiava con il fascismo, ma noi emiliani lo abbiamo sempre festeggiato, magari mangiando qualcosa che non si preparava nemmeno la domenica. Noi ragazze, all’epoca, usavamo portare il nastrino nei capelli. Io ne avevo diversi, ma il primo maggio usavo mettere sempre quello rosso. Vicino al cimitero c’era sempre un gruppo di fascisti che controllavano anche cosa uno avesse in borsa. Mi fermarono e mi chiesero il perché di quel nastro. “Perché? Che cosa c’è?”. E ho fatto per mettermelo a posto. “Io metto sempre un nastro fra i capelli” “Perché rosso?” “Ne ho di tanti colori, stamane mi andava il rosso”. Lui non ha fatto cenno al primo maggio, ma tutti e due sapevamo che era per quello. Era un ragazzo giovane e mi disse: “Io se fossi in lei lo toglierei” “Manco per sogno. Lo porto sempre, poi mi vengono già i capelli e devo andare al lavoro”. Così mi hanno lasciata andare. La mia amica Wilma aveva un vestito rosso, un po’ corto, che teneva apposta per il primo maggio» (Erica Ardenti, La Resistenza rimossa. Storia di donne lombarde, Milano, Mimosa, 2004, pp. 188-189).

Lasciando da parte la questione generale dell’uso dello smalto e del trucco da parte delle sportive italiane – questione sulla quale basterebbe la frecciata dall’attaccante della Nazionale Barbara Bonansea ai colleghi uomini, ossia «ci trucchiamo, gli occhi e le unghie, non il motore» (Barbara Bonansea e Marco Pastonesi, Il mio calcio libero, Milano, Rizzoli, 2019, p. 62) -, concentriamoci in questa sede sull’uso deliberato di smalti significativi dal punto di vista dell’identità nazionale, quindi azzurri o tricolori. Sono quelli che presuppongono una scelta non semplicemente estetica da parte di colei che li stende (o se li fa stendere), ma anche politica – senza volere poi ovviamente esagerare nel caricare l’aggettivo “politico” di chissà che significati sempre espliciti e coerenti, e mantenendoci piuttosto all’altezza minima di un patriottismo di base che possiamo presupporre in una sportiva che ha l’onore di difendere i colori azzurri in un contesto internazionale.

Partendo dall’ambiente già indagato da Antonella Stelitano con il doppio esempio di Martia Bastianelli e Giorgia Bronzi, nel giugno 2008, intervistata dalla Gazzetta dello Sport, la ciclista Fabiana Luperini dichiarava che «il ciclismo è anche donna. La femminilità dipende da noi stesse. Io, per esempio, cambio lo smalto secondo la divisa. E quando nel prendere la borraccia mi s’è rotta un’unghia, qualcosa al massaggiatore ho detto». Due anni dopo, nel 2010, la collega di mountain bike Anna Mei dichiarava: «Mondo maschile per eccellenza, lo sport non mi ha impedito di essere donna, ma mi ha aiutato, affrontando innumerevoli difficoltà, a diventare donna in ogni mio poro. Mi piace avere lo smalto tricolore mentre a un mondiale taglio il traguardo piena di fango o legare i capelli in due treccine che spuntando da sotto il casco evidenziano che sono una donna, anche sbarazzina».

Sembra però che sia stata l’Olimpiade di Londra 2012 a vedere un vero e proprio boom della nail art fra le sportive di tutto il mondo, come da immancabili photogallery sbucate in Rete (vd. ad es.  https://www.stile.it/2012/08/10/unghie-patriottiche-a-londra-2012-646-id-106736/ ), le quali mostravano donne di tutte le discipline e le nazioni scendere in campo con le unghie smaltate dei colori della propria bandiera nazionale: la nuotatrice francese Coralie Balmy, la tennista bielorussa Victoria Azarenka, la nuotatrice ceka Petra Chocova, la tennista Laura Robson, l’atleta statunitense Jillian Camarena-Williams, la nuotatrice britannica Rebecca Adlington o quella danese Rikke Pedersen. Anche l’Italia partecipava alla competizione cromatica, grazie alla giocatrice di beach volley Marta Menegatti, che decideva di optare per una semplice combinazione (dal mignolo della mano sinistra) 3 unghie totalmente verdi – 4 unghie totalmente bianche – 3 unghie totalmente rosse, anziché per un più complesso mini-tricolore ripetuto 10 volte (Adlington e Pedersen invece optavano per degli Union Jack e dei Dannebrog in miniatura su ciascuna unghia). Per comodità, chiamiamo d’ora in poi la prima scelta unghie combinate, la seconda unghie ripetute, come quelle sfoggiate nella stessa occasione dalla compagna di squadra di Marta Menegatti, ossia Greta Cicolari, un tricolore per l’occasione orizzontale.

Il fatto che le Olimpiadi di Londra avessero sdoganato le unghie come latrici di messaggi politici è l’antefatto di una successiva evoluzione, quella avvenuta ai Mondiali di Atletica di Mosca 2013: la saltatrice svedese Emma Green Tregaro scese infatti in gara con le unghie combinate (5 colori ad unghia, ripetuti uguali sulla seconda mano) color arcobaleno, per protestare contro le leggi anti-LGBT vigenti nel paese ospitante. La stampa italiana riportò la seguente dichiarazione dell’atleta: «Appena sbarcata a Mosca, la prima cosa che ho visto è stato un arcobaleno: ho pensato fosse un buon segno. Così ho deciso di colorare le mie unghie per dire quel che penso». Ripresa dalla IAAF per il suo comportamento (il regolamento impediva di lanciare pubblicamente durante le gare messaggi esplicitamente politici), la svedese sceglieva di scendere in campo per la finale con le unghie laccate di rosso, spiegando: «io credo nell’amore».

Usi divisivi dello smalto che ovviamente, come da tradizione nazionale, non tangevano minimamente la nostra comunità sportiva, da sempre restìa – come dimostrato dalle polemiche per il kneeling agli Europei di calcio dell’estate 2021 – a questo tipo di prese di posizione. L’uso dell’unghia tricolore, nel frattempo, si diffondeva, attestato dalla stampa nazionale: la pallavolista Antonella Del Core ai Mondiali del 2014 (tricolore ripetuto, in versione obliqua), la ciclista Sofia Bertizzolo (2014-2015), l’atleta Libania Grenot ai Mondiali per staffette (Bahamas, 2015) e la nuotatrice Martina Caramignoli ai Mondiali di Kazan 2015, fino ad arrivare alle Olimpiadi di Tokyo, con la 19enne ginnasta ravennate Milena Baldassarri che, in procinto di partire, pubblica su Instagram uno scatto che immortala una vera e propria “teoria d’unghie”, comprendenti una col tricolore ed una coi cinque cerchi olimpici.

Il già citato esempio di Arianna Fontana ai Giochi Invernali di Pechino 2022 è interessante perché proviene da un mondo, quello degli sport invernali, teoricamente refrattario allo smalto, visto l’utilizzo dei guanti che durante le performance nascondono le unghie di pattinatrici, sciatrici e bobbiste. Come spiegato da uno specialista di marketing sportivo, «nella gestione dell’immagine di atlete degli sport invernali c’è un problema di visibilità. Le sciatrici sono spesso inquadrate, ma indossano casco e maschera degli occhiali. Questo fa sì che sia difficile lavorare sull’immagine dell’atleta perché sono poco riconoscibili» (Andrea Vidotti, Donne e sport nella mia esperienza di manager: da Alberto Tomba a Sofia Goggia, in Donna e sport nella storia d’Italia, a cura di Antonella Stelitano e Matteo Monaco, Canterano, Aracne, 2020, p. 41). Nulla ha però impedito ad Arianna di farsi trovare pronta, e di mostrare dopo la gara il proprio piccolo tricolore.

Allo stesso modo, può forse stupire trovare lo smalto tricolore nel mondo delle atlete che hanno subito amputazioni, certe volte proprio alle mani. Eppure è proprio ciò che racconta Silvia Biasi nelle pagine della sua autobiografia dedicate ai Mondiali di sitting volley dei Paesi Bassi 2018, pagine interessanti perché testimoniato addirittura un transfer ludico della pratica addirittura alle unghie dei propri allenatori e dirigenti maschi: «Nonostante l’ansia prepartita, eravamo davvero belle da vedere! Ci eravamo comprate delle mollette per i capelli di colore verde, bianco e rosso, con le quali avevamo formato la nostra bandiera. Avevamo messo tutte lo smalto azzurro alle unghie, tranne sull’anulare, dove avevamo dipinto la nostra bandiera tricolore! Nel corso del Mondiale quella bandiera l’abbiamo dipinta anche sulle unghie di Guido Pasciari, che era presente come delegato della Federvolley, Glauco Ranocchi e Mattia Pastorelli. Ogni volta che scendevamo in campo uno di loro lanciava la scommessa: se vincete mi faccio dipingere la bandiera sulle unghie anch’io … E dai uno e dai un altro, alla fine del Mondiale non c’era membro della nostra squadra, staff compreso, che non avesse la nostra bandiera dipinta sull’unghia!» (Silvia Biasi e Antonella Stelitano, Volevo solo giocare a pallavolo, Portogruato, Ediciclo, 2021, p. 65). A quanto pare dalle foto recuperabili in rete, anche alle recenti Olimpiadi di Tokyo 2021 l’anulare delle azzurre continuava a sfoggiare il proprio tricolore.

E il calcio? In tutto questo non potevano mancare le #RagazzeMondiali di Francia 2019, già in precedenza citate di striscio con le parole di Barbara Bonansea. Non stupisce l’osservazione di Vanity Fair, che il 25 giugno 2019 ci informa del fatto che Tiziana, madre di Alia Guagni, «aspetta la partita con il Brasile con un cuore verde-bianco-rosso disegnato sulla fronte e lo smalto tricolore, alternato all’azzurro», giacché lo smaltarsi patriotticamente le unghie era già da tempo patrimonio comune già delle tifose della Nazionale maschile – sarebbe interessante riuscire a datare l’emergere di tale pratica, ma come si sa la storia del tifo calcistico passivo al femminile è un campo di studio tutto quanto da esplorare, in Italia. Piuttosto, è l’attaccante della Nazionale Cristiana Girelli, divenuta per un giorno beniamina d’Italia dopo la tripletta contro la Giamaica, a sfoggiare un’unica unghia tricolore (anche questa volta quella dell’anulare …) in mezzo a 9 rosse, incuriosendo i giornalisti che la interrogano a fine partita. È tuttavia interessante notare a cosa il tutto venga ridotto, a partire dal titolo scelto da Sky Sport per il suo pezzo sul sito: «Giocano a calcio (e vincono), ma non per questo sono dei maschiacci. Tengono alla loro femminilità ed al look. Quindi anche il “vezzo” dello smalto rosso ci sta. Se poi vicino c’è anche il bianco e il verde, il gioco è fatto». Tutto ridotto ad un vezzo da femminucce (l’importante, come al solito, è sottolineare al pubblico italiano già sconvolto per l’appropriazione indebita del gioco nazionale maschile, che «non […] sono dei maschiacci»!), non ci si interroga seriamente su una pratica, né si chiede alla diretta interessata. Addirittura, la stessa emittente propone un video nel quale viene chiesto alla calciatrice dimostrare le proprie mani, si scattano le foto, lei ci scherza sopra dicendo «l’estetista deve farmi le unghie gratis … !» … ma dall’audio si capisce che sia i cameramen e sia i giornalisti sono interessati all’immagine delle unghie in sé, non al suo significato. Scattate le foto, a chi importa d’approfondire?

Foto di copertina: le calciatrici Cristiana Girelli (con smalto tricolore sull’unghia dell’anulare destro) e Valentina Cernoia durante Italia – Giamaica, 12 giugno 2019, https://twitter.com/tempoweb/status/1139578106199584768  

Comments

  1. Articolo molto interessante e arguto che porta a fare alcune considerazioni. Mostrare il tricolore, lo ritengo un modo per affermare i propri sentimenti di attaccamento alla nostra Nazione; l’importante, a mio avviso, è non sconfinare in un cieco nazionalismo. Occorre, peraltro, rilevare che il tricolore viene sventolato solo in occasione di vittorie calcistiche. Sembrerebbe che solo il calcio unisca il popolo italiano dall’Alpi alla Sicilia. Per quanto riguarda l’espressione della femminilità delle atlete, rientra nella libertà che ciascuno di noi, a prescindere dal sesso, ha di mostrarsi. Personalmente sono per una certa sobrietà e non mi sembra che un pò di trucco in viso o le unghie tricolori stonino o siano fuori luogo in una competizione sportiva. Sono completamente in disaccordo, invece, con coloro che vogliono fare promozione sportiva con “culi e tette”.

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