dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014)

di Felice Fabrizio

L’amico Vincenzo Pennone, nell’affidarmi il compito di ricostruire la nascita del sistema sportivo nazionale, mi ha servito di barba e capelli.

Tanto per cominciare, è impossibile rintracciare all’anagrafe un vero e proprio atto di nascita.

Va detto poi che, come avveniva prima dell’introduzione della prova del DNA, la ricerca della paternità appare quanto mai incerta.

Senza contare inoltre che il parto, più che come frutto di una rigorosa pianificazione, va interpretato come l’esito di iniziative casuali, disorganiche, non di rado contraddittorie, in un groviglio reso ancora più intricato dai caratteri originali della storia nazionale, che esaltano la diversità e il localismo.

Per il sistema edificato in Italia tra il XIX e i primi anni del XX secolo all’immagine del monolito di “2001 Odissea nello spazio” va sostituita quella del mostro di Frankenstein, assemblato utilizzando pezzi sparsi di cui proverò a sintetizzare le origini e le peculiarità.

In un cantun vecc del nost Milan c’è un luogo che si chiama Cinque Vie, luogo di incontri, di transazioni, di contrasti che non di rado degenerano in risse.

Il sistema sportivo italiano si forma alla confluenza delle cinque vie, diverse per anzianità, ampiezza e caratteristiche.

La prima è un modesto viottolo di campagna logorato dai passi delle molteplici generazioni che l’hanno percorso, olezzante di fritture e di dolciumi a buon mercato, risonante del chiasso della sagra paesana.

E’ lo spazio dei giochi tradizionali. Prove di forza e di destrezza. Battaglie combattute a pugni nudi, a spintoni, a sassate, a bastonate. Palii ippici, podistici, remieri, natatori. Il calcio fiorentino. Il pallone a bracciale, il tamburello, le bocce, inventati e codificati nelle corti rinascimentali e via via fatti propri dalle classi subalterne.

E’ un mondo marginale, appartato, riluttante ad abbandonare la cornice festiva, a staccarsi dalla comunità locale, ad inserirsi nel quadro istituzionale delle associazioni, delle federazioni, dei campionati.

Ha origini altrettanto remote anche l’elegante strada privata su cui si muovono a ritmo di minuetto i raffinati cultori delle arti accademiche, scherma ed equitazione, assieme alla danza prodotti purissimi del Rinascimento italiano, irradiati in tutta Europa da trattatisti e da maestri.

E’ un percorso angusto, riservato ad una cerchia ristretta di privilegiati, aristocratici e militari, interessati a completare il corredo del perfetto gentiluomo e ad addestrarsi allo scontro all’arma bianca, in battaglia come nel duello.

E’ una via che accetta a malincuore l’avvio dei lavori di modificazione e di ampliamento che la costringeranno a fare i conti con l’oggettività dei risultati e ad adeguarsi allo spirito agonistico.

Di più recente costruzione è un’austera e squadrata strada militare su cui echeggiano passi di marcia, secchi comandi, echi di spari, fanfare ed inni.

Vi si incolonnano i cultori di quelle che gli storici francesi chiamano “pratiche costrittive”, il tiro a segno e la ginnastica, intrise, come vi spiegherà l’amico Sergio Giuntini, di valori patriottici e subordinate alla preparazione alla guerra. Piombate in Italia al seguito delle armate napoleoniche, in una fase storica convulsa nella quale si affermano i modelli della mobilitazione permanente e del cittadino – soldato, le pratiche costrittive si pongono inizialmente al servizio del processo di costruzione dello stato nazionale, in un secondo tempo della elaborazione di una identità condivisa.

L’apporto quantitativo fornito da questo filone è molto consistente ed è innegabile che il sistema allo stato nascente abbia come spina dorsale le società ginnastiche.

Ma le pretese egemoniche di questo settore, unico ad ottenere un minimo di riconoscimento e di supporto dagli ambienti ufficiali, dovranno ben presto scontrarsi con l’apparizione delle pratiche ludiche e soprattutto delle discipline sportive.

Il viale alberato ed elegantemente adornato è la chiave di accesso degli svaghi delle classi dominanti. Che arrivano da molto lontano, perché da sempre l’ozio e il denaro sono prerogative dei vertici della piramide sociale. Che nell’Ottocento subiscono tuttavia una autentica mutazione genetica.

Sull’approccio individuale ed informale prende il sopravvento la pratica inquadrata da associazioni modellate sui club inglesi, che riuniscono attorno ad uno specifico programma di attività individui appartenenti al medesimo spazio sociale.

E’ una tendenza irreversibile che modifica i significati e le forme di svaghi antichissimi come la caccia e la pesca e che impone l’imitazione dei prodotti culturali recanti il prestigioso marchio made in England (ippica, alpinismo, tiro a volo, vela, tennis, golf), gli stemmi delle stazioni turistiche invernali (pattinaggio e sci), il sigillo della modernità (automobilismo, motociclismo, motonautica, aviazione).

Comune e viva appare qui la preoccupazione di difendere a denti stretti i privilegi di casta. Le élites abbandonano precipitosamente i settori minacciati da intrusioni plebee, il ciclismo e il calcio delle origini, per arroccarsi in cittadelle rese inespugnabili dalla rigidità dei meccanismi di ingresso nelle associazioni e dalle cifre astronomiche richieste per l’affiliazione e per l’esercizio delle attività.

Altrettanto avvertita è l’esigenza di anteporre alle fatiche muscolari, alle mischie scomposte, ai furori agonistici il disinteresse amatoriale e i piaceri della mondanità.

Di modernissima concezione è la quinta via, disseminata di pietre miliari e di orologi meccanici che geometrizzano lo spazio e il tempo, consentendo la misurazione e il confronto delle prestazioni.

Lo sport, nato in Gran Bretagna tra la fine del Settecento e la prima metà del XIX secolo, fatto proprio dall’Europa Continentale, dagli Stati Uniti e dalle colonie inglesi, sbarca in Italia tra il 1860 e il 1890, anche se la maggior parte dei suoi principi ideologici e organizzativi sono presenti già nei decenni precedenti nell’ambito delle società che presiedono allo svolgimento delle corse ippiche “all’inglese”.

Da apripista funzionano il canottaggio e ancor più il ciclismo, destinato a diventare lo sport nazionale dell’Italia liberale, in particolare dopo che sulle riunioni su pista prevarranno le affascinanti corse su strada.

Alla fine dell’Ottocento risale l’insediamento del calcio, che acquista una importanza crescente solo negli anni che precedono la Grande Guerra, del nuoto e delle discipline verso cui si orientano i ceti popolari, podismo, lotta e sollevamento pesi.

All’incrocio delle cinque vie, dove lo sport, facendosi largo a gomitate, si sforza, riuscendovi in buona misura, di allontanare dalla loro fisionomia originaria tutte le altre componenti, si stanno già innalzando le impalcature destinate a sorreggere l’edificio.

Lo sforzo da intraprendere, già immane di per sé, è reso ancora più difficile dalla quasi assoluta indifferenza del mondo politico e scolastico, che fa ricadere per intero il peso della spinta promozionale sulle gracili spalle della società civile dell’epoca.

Vi è da tessere la rete delle associazioni di base. Da intrecciare i nodi che ne coordino le iniziative, le federazioni nazionali. Da predisporre attrezzature e spazi di attività funzionali. Da allestire eventi pianificandone e concatenandone le date di svolgimento. Da selezionare gli addetti ai lavori, dirigenti, tecnici, giudici. Da produrre un apparato informativo. Da elaborare un sistema di valori.

Eppure, e siamo di fronte ad uno dei miracoli che contrassegnano le vicende nazionali, allo scoppio della I Guerra Mondiale lo stato dell’arte è già soddisfacente.

Diamo un’occhiata alla mappa dei lavori cominciando dalla tabella dei tempi.

L’insediamento del movimento associativo si sviluppa in tre fasi.

Nella prima, compresa tra il 1861 e il 1880, la struttura è sorretta dalla ginnastica, dal tiro a segno, dalle sezioni del Club Alpino Italiano, cui si aggiungono le associazioni che si occupano degli svaghi della classe agiata e i primi circoli remieri e ciclistici. 

La seconda, che ha per sfondo l’ultimo ventennio dell’Ottocento, fa registrare una crescita costante che ha per protagoniste le discipline sportive.

Nei primi quindici anni del XX secolo si verifica un vero e proprio boom di nuove fondazioni, che ha per centri propulsori le unioni sportive, il ciclismo e il calcio.

Parallelamente si costituiscono le federazioni nazionali, fattori insostituibili di coordinamento e di standardizzazione delle regole e delle formule.

In rigoroso ordine di apparizione, per limitarci alle discipline più diffuse, entrano in scena l’alpinismo (1867), la ginnastica (1869), il tiro a segno (1882), il ciclismo (1885), il canottaggio (1889), il calcio (1898), il podismo (1899), il nuoto (1900), l’atletica pesante (1902), l’atletica leggera (1910).

Nel 1914 assume una forma permanente il Comitato Olimpico Nazionale Italiano.

Alla fine del cammino, ad eccezione del tiro a volo e del pattinaggio a rotelle, tutte le attività hanno completato un processo di istituzionalizzazione che si rafforza tramite l’allestimento dei campionati italiani.

Qui l’ordine cronologico mette in fila (1884) il canottaggio e la ginnastica (1889), il podismo e il sollevamento pesi (1897), il calcio e il nuoto (1898), la lotta (1899), lo sci, la scherma e il pugilato (1909).

La costruzione di impianti permanenti e funzionali si rivela quanto mai lenta e stentata.

Negli strati più profondi dell’archeologia sportiva nazionale giacciono sferisteri e ippodromi.

Poco più sopra gli scavi portano alla luce poligoni di tiro, palestre di società ginnastiche, piste per il pattinaggio a rotelle e su ghiaccio, tracciati in terra battuta per le corse ciclistiche su pista.

Ad un livello superiore incontriamo campi da tennis e da golf e velodromi di più moderna concezione.

Nello strato superficiale si mescolano gli spazi erbosi su cui si disputano le partite di calcio, i campi da sci, le piste di atletica, le cattedrali nel deserto come i mastodontici stadi di Torino e di Roma.

Latitano, ed è questo uno dei non pochi peccato originali di cui lo sport italiano non si è ancora emendato, le attrezzature scolastiche, le piscine, gli impianti polivalenti di base, le strutture al coperto, sostituite dai palcoscenici dei teatri e dei caffè – concerto.

Priva di tradizioni autentiche e di una solida cultura in materia di attività fisico – sportive, l’Italia trae un innegabile vantaggio dall’inserimento nel circuito internazionale, ottenuto utilizzando tre canali.

L’affiliazione alle federazioni internazionali e l’adesione al movimento olimpico.

L’organizzazione sul suolo nazionale di grandi manifestazioni, campionati mondiali ed europei e prove classiche.

La partecipazione alle più importanti competizioni internazionali di atleti e di rappresentative, capaci di cogliere un bottino molto più consistente di quanto non appaia nelle ricostruzioni elaborate dal regime, preoccupato di accreditare l’immagine del fascismo demiurgo dello sport italico.

In quattro edizioni dei Giochi Olimpici l’Italia ottiene 15 medaglie d’oro, 11 di argento, 5 di bronzo.

Il tiro a segno accumula 14 titoli iridati individuali e a squadre, il ciclismo due. 14 sono anche i successi degli armi italiani nei campionati europei di canottaggio.

E non è finita. Vittorie di vetture e di piloti italiani sulle piste automobilistiche europee e americane. Trionfi di schermidori e cavalieri. 13 affermazioni dei tiratori a volo nel Grand Prix du Casinò di Montecarlo, vero e proprio campionato mondiale ufficioso.

Il record mondiale sui mille metri ottenuto nel 1908 dal grande podista Emilio Lunghi. Il trionfo di Giuseppe Sinigaglia nelle Challenge Sculls di Henley, la più prestigiosa prova remiera internazionale.

Passiamo al registro delle maestranze.

Per censirle occorrerebbero dati molto più completi ed attendibili di quelli in mio possesso, riferiti a circa 10.500 associazioni sportive e parasportive fondate tra il 1861 e il 1915.

E’ quasi impossibile, vi assicuro, fotografare la situazione in un momento preciso, districarsi tra minuscole aggregazioni ed entità che vantano centinaia di tesserati, distinguere i soci attivi, generalmente in netta minoranza rispetto alle altre tipologie di tesserati.

Risulta più semplice, per contro, tracciare l’identikit dei praticanti.

Che sono in prevalenza adulti (gli under 18 costituiscono una ristretta pattuglia) e maschi (il lungo e tormentato itinerario di accesso alle pratiche e alle associazioni dell’altra metà del cielo merita una trattazione a parte).

Molto diversi per estrazione sociale: presenti al gran completo la nobiltà e l’alta borghesia; folta rappresentanza della media e della piccola borghesia e delle aristocrazie operaie, presenze più sporadiche del proletariato di fabbrica, latitanza del mondo contadino.

Il cantiere è una babele di dialetti.

La distribuzione delle pratiche e delle associazioni sul territorio rispecchia i diversi livelli di sviluppo economico, il volume del capitale sociale in cui si esprimono il senso civico e la predisposizione ad aggregarsi, la natura degli insediamenti, che avvantaggiano le zone con una rete urbana a maglie fitte e ricche di dinamiche località secondarie.

I primi giornali specializzati fanno la loro comparsa attorno al 1860. Si tratta di modesti bollettini di società e di federazioni che operano nei settori dell’ippica, del tiro a segno, della ginnastica e dell’alpinismo.

Tra il 1876 e il 1882 entrano in campo le eleganti riviste mondane che inseriscono nella testata il termine “sport”, riferito in modo esclusivo alle discipline equestri, alla caccia, al tiro a volo.

Nel ventennio successivo è la volta di fogli che si occupano di un’unica disciplina e di giornali polisportivi sul tipo della gloriosa “La Gazzetta dello Sport”, fondata nel 1896.

Nel primo Novecento il quadro si arricchisce di riviste contenenti splendide immagini fotografiche, di periodici satirici e sportivo – culturali, di fogli che documentano le cronache sportive locali.

Anche in questo caso il bilancio risulta molto meno deludente di quanto si potrebbe credere, se è vero che il mio elenco provvisorio di testate che si occupano in misura esclusiva o comunque consistente di sport supera le 420 unità.

Sarebbe vana fatica ricercare nella pubblicistica dell’epoca un corpo organico e condiviso di contenuti ideologici.

La mancanza di centri autorevoli di elaborazione e di legittimazione paragonabili alle istituzioni educative anglosassoni, ai licei parigini, alle associazioni ginnastiche tedesche, così come il silenzio assordante del mondo politico, scolastico e culturale, impone una navigazione a vista.

Nell’apparato valoriale si intrecciano istanze formative, influssi umanitari e paternalistici, retaggi delle tradizioni cavalleresche, il fair – play e l’approccio amatoriale tipici del modello sportivo inglese.

Il carattere apolitico fieramente affermato dalle disposizioni statutarie, effettivo nelle associazioni che esauriscono la loro ragione di essere nella pratica di una attività, si riduce a mera finzione nella vita quotidiana di sodalizi che, cominciando dalla denominazione sociale, dall’apparato simbolico, dalla partecipazione assidua ai momenti commemorativi della storia nazionale, risultano del tutto funzionali all’ideologia dominante.

Nel fabbricato ancora in costruzione affiorano già le prime crepe.

I primi a cogliere gli aspetti contraddittori del sistema sono i cattolici, dal 1870 irriducibili oppositori dello stato liberale, assorbiti nell’azione di arginamento delle violente campagne anticlericali che vedono in prima linea i ricreatori laici promossi dalle logge massoniche.

Il mondo cattolico, forte di una presenza capillare, sensibile alle tematiche concernenti l’educazione delle nuove generazioni, coinvolto nella sua espressione più avanzata, il movimento democratico – cristiano, in un serrato confronto con la modernità e con i suoi prodotti culturali, fa leva su un fitto reticolo di associazioni per formare a partire dal 1890 dapprima sezioni ginnastiche di oratori e di circoli, in seguito organismi autonomi.

Quando, agli albori del Novecento, le associazioni cattoliche bussano alla porta della Federazione Ginnastica per ottenere l’affiliazione, la finzione rivela tutti i suoi elementi di debolezza.

Minacciata nella su incontrastata supremazia, la Federazione oscilla tra l’intransigenza assoluta che nega alle forze disposte a testimoniare a viso aperto la propria appartenenza ideologica di mescolarsi alle associazioni liberali, di fatto politicizzate, e le soluzioni all’italiana che conducono all’accoglimento delle istituzioni che dissimulano la propria fisionomia religiosa.

L’esito è tutt’altro che inevitabile.

Nel 1906 una parte delle associazioni marginalizzate si riuniscono nella Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (F.A.S.C.I.), con sede a Roma e posta alle dipendenze dirette delle gerarchie ecclesiastiche.

A un anno di distanza le società attive nella regione guida dello sport cattolico, in aperta polemica con l’istituzione capitolina, danno vita alla Federazione Ginnastica Regionale Lombarda.

I cattolici forniscono in ogni caso un apporto sostanzioso alla costituzione del sistema.

In meno di dieci anni sorgono infatti più di 800 società, in prevalenza ginnastiche, ma anche escursionistiche, ciclistiche, podistiche, calcistiche, polisportive, concentrate nelle regioni  nord – orientali e nel Lazio.

Al dinamismo organizzativo non corrisponde tuttavia una riflessione in grado di enucleare e di presentare i tratti distintivi dello sport cattolico.

Unanimi nel denunciare gli aspetti degenerativi dei modelli dominanti, i cattolici non riescono ad affrancarsi dalla subalternità ai principi della suddivisione in categorie di merito, alla logica dei concorsi, all’enfasi posta sulle classifiche e sui vincitori.

E’ una subalternità che emergerà in tutta evidenza nel 1915, quando lo sport cattolico si unirà a quello nazionale nel sostenere la necessità dell’intervento in guerra dell’Italia

In una analoga zona grigia si collocano le associazioni ginnico – sportive repubblicane, concentrate nella Romagna, e le prime timide iniziative poste in atto dal movimento operaio.

Queste ultime devono fare i conti con il pregiudiziale antisportismo che anima le componenti massimaliste del partito e della federazione giovanile socialiste, nell’età giolittiana maggioritarie rispetto alla più pragmatica componente riformista.

Lo sport strumento della borghesia, strumento del militarismo, oppio delle classi lavoratrici, diventa un nemico da combattere.

Prive di riferimenti culturali e di supporti organizzativi, le associazioni sportive proletarie, tranne rarissime eccezioni in cui è avvertibile una esplicita rivendicazione di classe, finiscono con il ricalcare le forme istituzionali preesistenti.

L’Unione Operai Escursionisti Italiani non si discosta dalle analoghe associazioni borghesi. E perfino le espressioni all’apparenza più connotate in senso ideologico, i ciclisti rossi, si ispirano all’attività dei reparti di volontari ciclisti di matrice nazionalista.

Ed è proprio nel variegato e chiassoso mondo del nazionalismo e dell’irredentismo che nel primo scorcio del XX secolo il sistema sportivo scopre un avversario inatteso, tanto più insidioso perché agisce dall’interno.

Tra il 1903 e il 1915 nello sport sono trapiantati l’antipolitica, l’insofferenza per la democrazia, i sarcasmi che investono il grigiore dell’Italietta, le aspirazioni che prefigurano per il paese un destino di grande potenza economica, militare, coloniale e, ovviamente, sportiva.

Vati e duci sfornano a getto continuo suggestive parole d’ordine: il Risorgimento tradito da completare attraverso gli slanci disinteressati ed eroici delle nuove camicie rosse, la Terza Italia, la Grande Proletaria, i miti della macchina e  della velocità, l’agonismo muscolare, la violenza catartica, la guerra sola igiene del mondo.

A questo confuso substrato lessicale e concettuale, su cui poggia la mobilitazione generale dello sport nazionale in favore della scelta interventista, attingerà a piene mani il fascismo, nello stadio di movimento prima, poi in quello di regime totalitario.

Ma questa è già un’altra storia che, se volete, sarà al centro della prossima puntata.

BIBLIOGRAFIA

Sergio Giuntini, Sport scuola e caserma dal Risorgimento al primo conflitto mondiale, Padova, Centro Grafico Editoriale, 1988;

Felice Fabrizio, Fuoco di bellezza. La formazione del sistema sportivo nazionale in Italia 1861 – 1914, Milano, Sedizioni, 2011;

Felice Fabrizio, Corpi per la patria. Le attività motorie nel lungo Risorgimento 1784 – 1915, Milano, Sedizioni, 2013.

Emilio Lunghi (in evidenza Giuseppe Sinigaglia Foto da Wikipedia.org)

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