dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014)

di Vincenzo Pennone

Al fervore impetuoso con cui il nostro paese si inserì nella belle époque europea “ogni porzione di territorio partecipò con modalità e intensità diverse”. Sicuramente minori queste intensità nel caso della Sicilia e del Meridione in generale, che scontarono anche il nulla di fatto che i successivi governi giolittiani raggiunsero per il Meridione: un Meridione abbandonato a se stesso, ancora prigioniero dell’impostazione feudale della società, immerso sino al collo già allora nella corruzione pubblica e guidato dalla criminalità che poteva già definirsi “organizzata”.

Nonostante queste difficoltà strutturali, un alito di ribellione un tentativo di agganciarsi a realtà economico-sociali più avanzate, in Sicilia ci fu, trovando ispirazione anche in quelle iniziative produttive ed economicamente attive che nell’isola una importante componente anglosassone aveva già da tempo avviato. A questo processo di sviluppo del movimento imprenditoriale, che avrebbe avuto ripercussioni evidenti anche nel campo sociale e culturale, con una ventata del tutto inconsueta di attività ludico-sportive, contribuirono in maniera decisiva i Florio.

I Florio, una dinastia di imprenditori i cui iniziatori, Paolo e Ignazio, calabresi di Bagnara, decisero un giorno sul finire del ‘700 di attraversare il Tirreno e fermarsi a Palermo per dare una scossa alla propria attività che fino allora era consistita nell’esportazione con una piccola flotta di feluche del legname dell’Aspromonte e dell’olio locale.

Dopo un secolo, alla fine dell’800 il patrimonio dei Florio era una delle più consistenti realtà economiche del nostro paese. Le loro imprese spaziavano dall’agricoltura all’industria, e si estendevano in campo metalmeccanico, chimico, manifatturiero, estrattivo, enologico, conserviero. L’attività di maggior peso era però quella armatoriale: negli ultimi anni del secolo, grazie anche all’accordo (1881) stipulato con l’armatore genovese Rubattino per la costituzione della “Navigazione Generale Italiana”, la compagnia possedeva 105 navi che per tonnellaggio rappresentavano circa l’80% dell’intera flotta nazionale.

Il vertice alto nell’ascesa del casato si avrà con Ignazio, figlio di altro Ignazio e Giovanna d’Ondes Trigona, a cui sono legate alcune fra le più grosse iniziative imprenditoriali di quegli anni: i Cantieri Navali di Palermo, il quotidiano “L’Ora”, la Ceramica Florio, il “Consorzio Agrario Siciliano”, la “Anglo Sicilian Sulphour Company”, la costruzione di Villa Igiea e del Teatro Massimo. Anche le istituzioni benefiche di maggior rilievo e tutte, o quasi, le attività culturali palermitane nacquero dal mecenatismo dei Florio, e di Ignazio in particolare.

Uno degli avvenimenti che ufficializzò l’avvio di questa nuova fase della vita economica e sociale fu la IV Esposizione Nazionale Italiana, che Palermo ospitò nel 1891 e ‘92, i cui padiglioni progettati da Ernesto Basile, esponente del liberty europeo, offrivano ampi spazi ovviamente ai prodotti delle industrie siciliane. Nel padiglione dei Florio c’era di tutto, il vino Marsala, il cognac Florio che presto si collocherà sul podio mondiale, l’archetipo delle famose tonnare di Favignana, i prodotti della fonderia Oretea per la navigazione a vapore e per altri rami dell’industria, in particolare quella di estrazione dello zolfo, sulla quale i Florio erano anche direttamente coinvolti. Quello poi che organizzarono a Palermo a latere all’esposizione lascia sbigottiti: la “corrida de toros” a Piazza Vittoria, le ascensioni in mongolfiera, gare di tiro a segno, corse di cavalli alla Real Favorita, fuochi artificiali, concerti tsigani, balli in maschera, tornei di scherma, corsi di fiori, gare tra bande musicali.

E i Reali d’Italia, Umberto I e Regina Margherita, che presenziarono alla cerimonia di inaugurazione, e tutti gli esponenti del mondo anglossassone –gli Ingham, i Whitaker, gli Hopps- che avevano già piantato stabilmente radici nell’isola, e presenti all’Esposizione testimoniarono l’attenzione per il ruolo di centralità e di convergenza di interessi economici cui la Sicilia aspirava, nella speranza di un risveglio economico e industriale sempre vagheggiato.

Ed i Florio, antenne puntate anche verso quel che accadeva fuori dall’isola, non vollero mancare tra l’altro -con un elegante padiglione- all’Esposizione internazionale che Milano ospitò nel 1906.

Furono in tre, i Florio protagonisti assoluti di questo fermento mondanoturistico-sportivo: Ignazio l’ultimo condottiero dell’impero familiare, Vincenzo il fratello minore, i due legati sin da piccoli da un patto di fedeltà reciproca, indissolubile e mantenuto anche avanti negli anni, pure durante quelli tristi che portarono al crollo di quell’impero, e Franca Jacona Florio moglie di Ignazio.

Devoto al fratello, zio premuroso dei piccoli pargoli di Ignazio e Franca, Vincenzo non volle però proprio saperne di occuparsi degli affari di famiglia, perché da giovane fu –per così dire- morso dalla tarantola delle organizzazioni sportive. Darà vita alle più grandi manifestazioni del tempo, organizzatore e praticante, e proprio nella veste di promoter lo incontriamo il 6 Maggio del 1906 sul lungomare di Bonfornello, alle falde delle Madonie, in trepidante attesa della nascita della sua “creatura”, proprio come un padre che aspetta il parto, ma la creatura che sta per nascere è una corsa di automobili. 

L’atto si consumò cinque anni prima, anche allora era il mese di Maggio, quando lui ancora diciottenne alla guida di una vettura prestatagli dal principe di Trabia cognato suo, partì per raggiungere le Madonie, per avere un primo contatto con quelle montagne conosciute solo per sentito dire o in fotografia. Con al suo fianco come guida per quella missione insolita e fascinosa l’amico Francesco Orestano, una guida importante perché Orestano aveva fondato nel 1892, e ne era presidente, il Club Alpino Siciliano. Un club che godette da subito di notevole fermento partecipativo, con moltissimi proseliti tra gli studiosi e i naturalisti, come Minà Palumbo e Giuseppe Pitrè, famoso letterato e antropologo e grande studioso di tradizioni popolari.

La missione di Florio si dimostrò da subito ardua e difficoltosa per le strade contorte pietrose polverose dove passavano solo muli e carretti, con la vettura avvilita quasi prostrata per la fatica, ma quelle montagne avrebbero elargito una quantità di approfondimenti di vita sociale ambientale e culturale del tutto inattesa. Subito, d’acchito la scoperta imprevista e penosa di una società drammaticamente distante da quella ristretta porzione aristocratica briosa e godereccia cui Don Vincenzo apparteneva, piccoli paesi tutti uguali, fotocopie l’uno dell’altro, con gli uomini per strada, uomini statici ancorati come saldati alla strada, tutti per strada esseri umani fermi immobili nella loro povertà e nella loro desolazione, erano paesuzzi che un tempo il Signore depositò così a casaccio, sperduti sulla montagna, Sclafani Geraci Petralia Soprana, e poi altrettanto imprevista, la visione paradisiaca del territorio madonita, un paradiso di volpi e di donnole, di istrici e lepri, di martore ghiri conigli e gatti selvatici, di lecci sughere e abeti la ginestra del Cupani l’agrifoglio gigante, la quercia monumentale di Bosco Pomieri, e i due viaggiatori scoprirono infine una miniera di storia in quel territorio, castelli altezzosi di principi antichi, fortezze saracene di mille anni prima scavate nella roccia,  e un’infinità di chiese e di conventi, con il loro prezioso contenuto di affreschi e dipinti, spesso gravi e minacciosi come questo Giudizio Universale opera dello “Zoppo di Gangi”.

Il giovane Vincenzo tornò a casa intontito, inebriato dagli odori e dai colori della montagna, sopraffatto dalla ricchezza dei valori dell’arte, ma tormentato dalle tortuose e ammalianti strade delle Madonie.

Tre anni dopo -appena 21enne- ideò una corsa in salita, da Palermo a Monreale normanna, e fu un grande successo, con piloti importanti arrivati da ovunque, principi e conti e complimenti vivissimi, e sull’onda di quel successo pose in cantiere altre iniziative, esplorando con lo stesso impegno altri terreni dello sport, come ad esempio il canottaggio, ove contribuì alla nascita del Circolo Canottieri intitolato al grande ammiraglio Roggero di Lauria, che ebbe per “iscopo di promuovere lo sviluppo e l’incremento dello Sport nautico in genere e del Canottaggio in ispecie”. Vogatori fieri e robusti dell’equipaggio denominato “Per Cominciare”, in maglietta bianca accollata ma senza maniche per esaltare la muscolatura delle braccia, che riscossero grande plauso ovunque fin nelle acque napoletane (aprile del 1903), il fratello Ignazio era stato eletto presidente del Circolo, e come apporto di presidenza aveva messo a disposizione per la sede sociale un brigantino della sua flotta in disuso ma ancora in ottime condizioni. Vincenzo si diede da fare anche nell’atletica,  organizzando numerose sfide podistiche nel Parco della Favorita tra giovani aristocratici, pure loro fasciati da questa caratteristica maglia a collo alto, e sugli esiti di quelle sfide le scommesse fioccavano già allora.

Non si creda però che Vincenzo Florio restasse dall’alba al tramonto incollato alla sua terra, viaggiava come un dannato alla ricerca di idee di eventi da emulare di partner da contattare.

Così approdò a Padova e a Brescia, dove nel 1905 (lui era appena 22enne) organizzò, sul modello della già affermata Coppa Gordon Bennet che di disputava in Europa e dell’americana Coppa Vanderbilt, la prima “Coppa Florio”: in terra lombarda.

Ma il pensiero delle tortuose strade delle Madonie riaffiorò, e da pensiero si tramutò in tormento, allora un giorno chiamò il marchese Della Motta suo intimo, e insieme riesplorarono metro per metro quelle strade strette polverose sconnesse, e lui -da abile maitre couturier- appuntò misurò e rimisurò per confezionare questo abito ribelle, questo disegno audace, questa corsa per automobili di cui –lui sperava- si sarebbe parlato per molti e moltissimi anni, in Sicilia in Italia e pure in Europa.

Deciso a concludere presto e bene, un giorno s’imbarcò per Parigi, dove i Florio erano di casa, e volle incontrare Henry Desgrange, direttore de “L’Auto” e ideatore del Tour, lo invitò a cena e gli espose il suo piano “da Bonfornello partiamo, per Cerda, e poi fino a Petralia Sottana saliamo saliamo, e poi scendiamo, Geraci Castelbuono Isnello Collesano, e a Bonfornello torniamo”, e il direttore dopo un attimo di smarrimento disse “mais oui, très bien…”, e anche i redattori del giornale Faroux e Le Fevre ed il famoso esperto fotografo di sport Meurisse tutti approvarono entusiasti, e poi ne parlò pure ad Etienne Giraud, uno che organizzava corse in patria e spedizioni automobilistiche nel Sahara algerino, e quello disse “oui oui, c’est un’idée merveilleuse…” ma in cuor suo temeva l’ardore dell’imprenditore siculo, lo spavaldo che poteva portare “beaucoup de problèmes à nos affaires”, un intralcio imprevisto alle sue organizzazioni.

E allora dalla parte francese cominciarono i “se” ed i “ma”, ma Don Vincenzo che ignorava le dubitative suonò la tromba dell’adunata per tutti i sindaci del territorio, scrisse lettere di invito, esortò sollecitò lusingò, e la contesa infine si accomodò, la gestazione era ormai conclusa, pochi giorni ancora e il grande sogno diventava realtà, ma d’improvviso i portuali di Marsiglia entrarono in sciopero, e a loro si affiancarono quelli di Genova, un guaio tremendo, diverse macchine tristi restarono ferme sul molo e lui seguì con angoscia quella vicenda, angosciato ma non rassegnato, rincuorato infine quando gli dissero che quattro vetture erano sbarcate a Palermo, quattro vetture che sommate alle sei di marca italiana facevano dieci, pazienza, è la prima edizione, l’importante è partire …

Gli attimi che precedono la partenza offrono uno scenario multiforme. L’umanità lì convenuta rappresenta diversi ceti della società palermitana e trasmette una peculiarità della “Primavera Siciliana”: aristocrazia e gente qualunque accomunate in un unico momento sportivo, in un’unica speranza di successo. La potente aristocrazia, con le eleganti signore che colgono la chance di un evento motoristico di cui probabilmente non sanno e capiscono molto, per esibire i vestiti e i gioielli ordinati a Londra e Parigi, e immerse nel loro cinguettio insopportabile tra cappelli e piumaggi, mariti ed amanti, ventagli e ombrellini, e un inchino di qua e un baciamani di là, si miscela perfettamente con la gente comune che quel giorno in massa è uscita di casa al canto del gallo per vedere la Targa, affollando i treni speciali predisposti dai Florio, prezzo politico fino al bivio di Cerda per rispetto a Florio Vincenzo e ad Ignazio fratello maggiore. Rispetto e stima che quella gente porterà sempre ai Florio, senza titubanze e interruzioni, perché percepita quella famiglia non come entità distaccata e separata da loro, ma come punto di riferimento certo e insostituibile per tutti. Come scrisse nel 1909 un cronista de L’Illustrazione Italiana “le famiglie più ricche, più stimate di Milano, di Firenze o di Genova non sono ancora, non sono affatto, quello che è casa Florio per la Sicilia… Fra l’isola e il casato c’è un’intima connessione e il casato è certo l’ente più rappresentativo dell’isola. Per rinvenire qualcosa di simile occorre risalire al mondo romano….. come la casa gentilizia romana Casa Florio è aperta a tutti…Chi ha bisogno di un aiuto, di un patronato, chi ha un’idea da lanciare o un disegno da effettuare, prende la via dell’Olivuzza, batte alla porta di Casa Florio”.

Quando tutti aspettavano il momento cruciale, cioè il colpo di cannone che comunicasse “si parte”, quel “bum” potente che significava via libera al gas alla perizia all’audacia, che era anche il colpo di cannone dell’orgoglio siculo, l’orgoglio di una terra affamata, il colpo della rinascita, l’automobile la velocità il futuro passavano da lì, per quella terra, un pedaggio obbligato, alla fine anche loro les énfants de la patrie si erano ravveduti, avevano riconosciuto a Vincenzo Florio beacoup de qualités, organizzatore ottimo come il loro paesano Giraud,  quando tutti aspettavano quel colpo arrivò Donna Franca, ed arrivò come al solito, alta ed altera, disinvolta e solenne, elegante e sportiva, qualcuno disse “è Afrodite che esce dal mare”, e dal quel momento nessuno più guardò i piloti e le macchine in gara, nessuno più disse per me vince Tizio per me vince Caio, e dell’orgoglio della terra sicula ne parliamo più avanti, mentre lei, accomodatasi in tribuna, dopo aver salutato con misurati gesti e sorrisi sudditi e forestieri, annunciò “Signore e signori … mesdames et monsieurs … on peut partir”.

E il cannone sparò, e la Fiat di Lancia partì forsennata. La prima Targa di Florio era cominciata.

Motori per le strade e motori anche sull’acqua. Il mare affascinava Florio e i motori lo esaltavano, allora Don Vincenzo ideò un’altra corsa e la chiamò “la Perla del Mediterraneo”, una gara sull’acqua di canotti-automobile, antesignani degli attuali off-shore. Nell’aprile del 1907 il piroscafo Stura, noleggiato dal “Comitato Feste e Riunioni Sportive” sbarcò nel porto di Palermo proprietari corridori e meccanici imbarcati a Nizza con i rispettivi bolidi che furono impegnati su di un circuito nautico di 10 chilometri da ripetere 10 volte. La gente era attonita per lo spettacolo, i nobili sulle terrazze di Villa Igiea, la gente qualunque sulla spiaggia dell’Acquasanta, gli occhi di tutti -di questi e di quelli- erano puntati sul golfo, alla ricerca di Flying Fish il pesce volante, e degli altri scafi assordanti che fendevano l’acqua tra spruzzi di schiuma festante.

Dotato di un’energia inesauribile, nello stesso anno Florio fu pure impegnato per il secondo appuntamento della “Coppa Florio” a Brescia,  e nella seconda edizione della “Targa” per le strade delle Madonie, nella sfida all’inglese Wonwiller in una gara aerea da svolgersi nell’aerodromo di Palermo, nella costruzione di un impianto di tiro a volo e nell’inaugurazione dell’autodromo Florio al Parco della Favorita, autodromo sulla cui pista due anni più tardi si concluderà la prima maratona di Palermo vinta dallo specialista Giovanni Blanchet.

Franca Florio era una donna di una bellezza unica ed esclusiva, dai magnifici grandi occhi verdi-dai magnifici soffici capelli neri-dalla magnifica pelle color dell’ambra, e aveva un portamento regale consentito da misure fuori dell’ordinario tale da far esplodere d’invidia le più belle e raffinate esponenti dell’aristocrazia e da far rincretinire gli esponenti del sesso forte, aristocratici e plebei. Si diceva che con lei tra le aspiranti, Paride avrebbe avuto i suoi problemi.

Il corteggiamento che Ignazio Florio, stordito da una tale beltà, le riservò fu lungo e complicato, condito di reciproci appassionati messaggi “mio caro non vedo l’ora…” “Francuzza cara, tesoro orgoglio e amore mio …”, perchè il barone Pietro Jacona di San Giuliano non ne voleva proprio sapere di concedere la mano della figliola ad un qualunque Florio, oltretutto a detta dei più incapace di resistere alle debolezze della carne, un Giacomo Casanova in versione sicula di fine ‘800, e solamente dopo la paziente intercessione della moglie il barone cedette e i due (11/2/1893) convolarono a giuste nozze. In Toscana, mai a Palermo.

La storia dell’unione di Franca Jacona di San Giuliano e Ignazio Florio è una storia di gioie e di dolori, è storia di mondanità smaccata e di buone azioni quotidiane “… novella Beatrice ama lasciare le sfarzose sale del suo palazzo per andare nei tuguri umidi e muffaticci, ove geme la fame, e quivi porta pane e quivi porta vesti da opporsi al rigido inverno …”, è storia di balli cotillons e feste di beneficenza, lei è patronessa dell’Istituto dei Ciechi, e di cose così ne organizza un po’ ovunque, all’Hotel Excelsior, a Villa Igiea  e al Teatro Politeama Garibaldi. Dove furoreggiano i veglioni in maschera, con la “Primavera Siciliana” che ha il suo apice nella “festa del Ramadan”: il teatro è un grande paesaggio arabo con sullo sfondo il deserto, c’è una corte moresca, circondata da tende, e dromedari e cammelli passano in mezzo al pubblico, tra suonatori di strumenti caratteristici e danzatrici del ventre; è una storia di teatri di grande musica e di grandi compositori: al Politeama c’è Giacomo Puccini per la “Manon Lescaut” e Franca Florio nel suo palco al centro della sala ascolta in trance, e qualche ora dopo a Palazzo Butera scintillante di luci affreschi e cristalli, tra camerieri in livrea, champagne e dolcetti alla crema di pistacchio, competente discute con il musicista di soprani e tenori, di flauti archi e fagotti.

Al Politeama Garibaldi, inaugurato nel 1891 con la Norma diretta da Arturo Toscanini, si esplicò pure la verve organizzativa e in parte trasgressiva di Vincenzo Florio. Il quale, all’interno di quel teatro ove si respirava l’aria più pura della lirica, e si ospitavano mostre di pittura e scultura di artisti famosi, volle portare un’altra forma di arte, la “noble art”, cioè la boxe. E a chi lo contestò perché usava un luogo sacro della musica per iniziative sportive, Florio replicò che “la boxe è un’arte antica e merita i grandi palcoscenici”.

La storia di Franca Florio è una storia di brillanti, di zaffiri, di lunghissime collane di perle, è una storia di ritratti di artisti famosi, Giovanni Boldini su tutti, amico di Degas e di Toulouse Lautrec.

Ma è anche storia di drammi familiari, come l’addio straziante ai due pargoli, Giovannuzza e Baby Boy morti in tenerissima età e alla giovanissima moglie di Vincenzo, Annina Alliata di Montereale, bella e amata da tutti, che il colera si porta via tra la disperazione generale.

E’ storia di ammiratori e spasimanti della bella Franca, una sfilza infinita di principi e poeti e pure cognati, è storia di brevi trasporti amorosi di Ignazio, per Bice Lampedusa duchessa di Palma, per la contessa Anna Morosini dagli occhi verdi e dai capelli color del rame, per Lina Cavalieri soprano famosa e donna bellissima e sensuale, definita da D’Annunzio “la massima testimonianza di Venere in Terra”.

Ma è pure storia di tradimenti, seri e prolungati: con la contessa Vera Papadopoli veneziana, e di duelli conseguenti perché il conte Gilberto Arrivabene suo amico carissimo ha scoperto la tresca e gli lancia il guanto di sfida, e l’indomani alle 6 del mattino a Villa Panzani vicino Porta Pia scintillano le lame, e il sangue scorre, ma Florio si è allenato con il supremo Agesilao Greco, le ferite non si contano, poi grazie al cielo intervengono i padrini e rimandano tutti a casa.

Il richiamo ad Agesilao Greco è l’appiglio giusto per rimarcare il posto di prima fila che toccò alla scherma nel panorama sportivo della belle époque siciliana.

Agesilao, dal greco “Aghesìlaos” (cioè capo del popolo) era figlio di Salvatore Greco dei Chiaramente, un marchese di Mineo ex garibaldino che era stato il leader massimo del movimento rivoluzionario nell’isola, sempre a fianco di Garibaldi a Messina, in Aspromonte e sul Volturno. E il marchese Greco, oltre che combattere di pugnale e sciabola, era maestro di scherma ed avvierà a Roma (1878) una sala d’armi che in seguito diventerà la celebre Accademia di scherma Greco di Via del Seminario.

Agesilao era snello, di media statura,  e possedeva una straordinaria forza fisica. Ogni giorno svolgeva sedute di allenamento massacranti. Aveva grande capacità di concentrazione, ed era in grado di sviluppare azioni potenti improvvise e velocissime partendo dalla più assoluta immobilità. Qualità che portarono Jacopo Gelli, tra i massimi studiosi della scherma italiana, ad affermare che in Greco “figlio della gloriosa terra dei Vesperi, si rispecchia tutta l’esuberanza di quella terra vigorosa, tutto il fuoco dell’Etna, tutta la passionalità di un carattere assolutamente meridionale”.

All’età di 21 anni, a Firenze, riportò successi sia nella sciabola che nella spada, e da allora fino al 1934, da Roma a Milano, da Parigi a Londra a Bruxelles, da New York a Chicago a Buenos Aires, sarà un susseguirsi ininterrotto di trionfi.

E la storia dei Greco e della scherma in Sicilia si intreccia con quella dei Florio.

Perché dell’accademia che lo spagnolo Figueroa inaugurerà il 21 Dicembre del 1899 in Via Rivoluzione facevano parte pure, soci e frequentatori fedeli, e non sarebbe potuto essere altrimenti, Ignazio e Vincenzo Florio. E vera rivoluzione fu in città, con la nobiltà e gli uomini d’affari che cominciarono a frequentare con assiduità le eleganti sale dell’accademia, dove pure si leggevano e si studiavano i trattati dei grandi saggisti di scherma, da Morsicato Pallavicini, a Blasco Florio, ai San Malato.

E’ importante soffermarsi un attimo sull’immagine dell’accademia, per presentare seduto primo da sinistra Pietro Speciale, citazione d’obbligo, perché si tratta del primo atleta che conquisterà per la Sicilia una medaglia olimpica tra tutte le discipline, e quella medaglia d’argento, nel fioretto individuale ai Giochi di Stoccolma del 1912, ne richiama un’altra di metallo più nobile, che sarebbe stata appannaggio del più grande schermidore d’Italia d’ogni tempo, Nedo Nadi, l’atleta livornese che resterà l’unico capace di vincere la medaglia d’oro nelle tre armi nella stessa Olimpiade.

Tornando ai coniugi Florio, la loro è pure storia di conoscenze e relazioni “reali”: con Edoardo VII d’Inghilterra e regina Alessandra, con i sovrani d’Italia in visita per l’Esposizione Agricola Siciliana, con Gugliemo II° e signora imperatrice Augusta Vittoria per un thè alla Villa all’Olivuzza con Franca che predispone il tutto con grande maestria, torte e pasticcini “e non dimentichiamo la nostra cassata” raccomanda al cuoco, ornamenti floreali e ornamenti personali, questi scelti dopo attenta riflessione, perché il Kaiser lo sappiamo è sensibile all’attrazione femminile.

E’ anche storia di frequentazioni di letterati illustri, Matilde Serao, Robert de Montesquiou, e su tutti il Vate, Gabriele D’Annunzio, che Ignazio lusinga e sprona a che possa “con una tua novella di tanto in tanto” dare impulso al quotidiano l’ “L’Ora” di recente fondazione; e lui, il Vate, legato alla Duse, prima ci prova con Franca, Lei scherza e sorride alle avances, ma Lei sempre fedele resta al patto col marito … l’onore innanzitutto … e il Vate capisce mette un freno agli ardori e avvia con Lei un rapporto sincero fatto di lettere di inviti di piccoli omaggi …

E’ storia di un erede maschio tanto voluto e mai arrivato, di Giacobina nata due mesi prima del dovuto e spirata qualche ora dopo la nascita, e della convalescenza di Franca a Favignana, nell’isola dei tonni, un relax ideale tra pescatori contadini e donne che ti portano il latte appena munto, la frutta appena colta dall’albero, il dolce appena uscito dal forno.

E’ storia di incontri con la grande finanza del mondo, Rotschild e Vanderbilt e Morgan, è storia di crociere nel Mediterraneo a bordo dei magnifici yachts di famiglia, “Sultana Aegusa Walkyria Queen”, viaggi di piacere e cultura, Corfù Atene Costantinopoli Tunisi monumenti musei chiese moschee la casbah …

E’ storia del varo di sontuose navi passeggeri, dal Caprera all’Europa  al Giulio Cesare, il più grande transatlantico dell’epoca, costruito dalla Navigazione Generale Italiana di Ignazio e Vincenzo Florio e Raffaele Rubattino di Genova. Un vero gioiello della marina italiana, con splendidi salotti in stile e soffitti affrescati, sale da pranzo con volte a cassettoni in legno, appartamenti di lusso, sale da ballo, da thè, biblioteca e cinematografo.

E’ storia di gioielli visoni cappelli carrozze teatri inchini lutti pianti tradimenti e perdono, è una storia in cui “la regina di Palermo” è incensata e rispettata da tutti, ma lo è soprattutto perché è la moglie del re Ignazio, ed ella si muove ed agisce secondo le aspettative di lui, interpreta i pensieri e i desideri di lui, perché è lui in fin dei conti che così l’ha plasmata, è lui che così l’ha voluta, elegantissima raffinata eccessiva sempre al centro delle attenzioni di tutti, obiettivo ideale di sguardi e commenti, indispensabile alla sua vita di relazione, e Lei recita la parte nella maniera migliore Lei è la moglie dell’imprenditore brillante, Lei è bella elegante raffinata altera spigliata autoritaria ma pur sempre moglie è, pur sempre accessorio è, prezioso quanto si vuole ma accessorio, oggetto pregiato da esibire da mostrare “eccellenza, Le presento mia moglie Franca …”.

A questa storia se ne sovrappone però un’altra, ed è la storia di Donna Franca la sportiva, supporto strategico e insostituibile del cognato Vincenzo. Di quel Florio, che pur nel rispetto del giuramento di fedeltà eterna prestato da subito ad Ignazio fratello maggiore, ambisce comunque ad un ruolo pieno e autonomo nella vita della famiglia, e quel ruolo lo trova in territorio ideale per le sue mire e passioni fatto di sport e turismo, che è terreno nuovo terreno vergine da esplorare zolla per zolla, per la Sicilia e forse anche per l’Italia intera. Per Donna Franca questa seconda storia è una storia certo più consona alle sue prerogative, pregna di momenti di grande libertà e di grandi passioni.

Prima tra tutte quella per i cavalli. Se vi sono cavalli, sei certo di trovarla. Lei è in tribuna, come sempre toilette impeccabile appropriata all’evento, binocolo a portata di mano, competenza e trasporto per il galoppo dei purosangue a Wellington, a Tor di Quinto, alle Capannelle, ai Parioli.

Oppure la trovi a Palermo, nell’immenso e rigoglioso parco di Villa Niscemi, Lei passeggia al fianco del marchese della Cerda, il marchese è un vulcano di idee, ha fondato la Società per la caccia alla volpe, Lei volpe o non volpe con i cavalli va in estasi e nella primavera (21/4) del 1900 escogita una cosa in grande prima mai vista, un torneo equestre con sapore di rinascimento, e alla Favorita accorrono tutti gli aristocratici cavalieri di Palermo, eleganti cavalieri su eleganti destrieri, ma ciò che più conta è che (*) lei ha invitato pure il capitano Caprilli, il livornese Federico Caprilli, non uno qualunque cioè, ma il grande cavaliere che fa scuola ai cavalieri di mezz’Europa, che fa saltare gli ostacoli al cavallo in un modo nuovo e diverso, lo addestra e lo ammalia con un sorriso e con un sussurro …

Tutti cavalieri erano a quel tempo in Sicilia, cavalieri veri e cavalieri di facciata, tra i quali il cavalier Spadafora di Policastrello, certamente meno abile in groppa ma fortemente impegnato nella promozione dello sport. Raccolse una cinquantina di soci e fondò lo Sport Club (V.Mariano Stabile), con l’obiettivo di incentivare tutte le discipline, ed affidò a Donna Franca la presidenza del club.

All’inizio del ‘900 i giochi sportivi inventati in Inghilterra trovarono terreno fertile a Palermo, grazie anche all’impegno profuso degli esponenti importanti della comunità britannica nel capoluogo siciliano. Così fu per il lawn tennis, che trovò in Eufrosyne Manuel Whitaker, la moglie maltese di Joss Whitaker (uno dei numerosi componenti di questa famiglia di imprenditori originari del West Yorkshire e trapiantatasi a Palermo agli inizi dell’800), una grande estimatrice e promotrice della disciplina. La signora, donna eccentrica ed affascinante, meglio conosciuta come la “Whitaker col pappagallo” per via di un loquace e variopinto volatile che era solita portarsi dietro appollaiato su una spalla, adorava il lawn tennis lo praticava e lo faceva praticare nei tre campi di Villa Sperlinga, denominati l’Inferno il Purgatorio e il Paradiso. Erano momenti di spasso e di nuove emozioni, ma quando arrivò a Palermo sua ospite Charlotte Cooper grande campionessa vincitrice già 3 volte a Wimbledon e ai Giochi Olimpici di Parigi furono pure momenti di alta didattica e cultura tennistica, con la campionessa che oltre a giocare dirigeva pure gli incontri e distribuiva consigli ai provetti tennisti palermitani. Tra questi provetti c’era pure Donna Franca, che già da qualche anno aveva trovato nel duca d’Orleans il compagno ideale per gli incontri di doppio.

E a proposito di inglesi, gli inventori del football non potevano certo trascurare Palermo. Edward De Garston e Norman Olsen, rispettivamente viceconsole e segretario di S.M. britannica accolsero con entusiasmo la proposta di Ignazio Majo Pagano, un giovane di buona famiglia che era stato spedito dai genitori a Londra per apprendere la lingua inglese ed era tornato invece con la testa obnubilata dal football, proposta di costituire l’ ”Anglo-Palermitan Athletic and Football Club”. Era il 1° novembre del 1900 e della prima formazione fecero parte proprio i due britannici e Sir George Edward Samuel Blake, ufficiale della marina del Regno Unito, già co-fondatore del Genoa, primo allenatore, primo portiere, poi segretario, che giocò nel Palermo sino ad età avanzata. Fu lui ad invogliare l’irlandese Sir Thomas Lipton, il magnate del thè ad investire nel calcio e in genere negli intrattenimenti sportivi palermitani le sue ingenti risorse finanziarie. A Palermo Lipton strinse molte amicizie, tra cui quella con Ignazio Florio cui lo legava la comune passione per le grandi barche a vela, come Aegusa lo yacht di 86 metri che Sir Thomas comprò proprio da Florio, o come il leggendario Shamrock con cui partecipava alle regate dell’America’s Cup di un tempo. Lipton destinò somme ingenti alla promozione dello sport a Palermo, il tennis a Villa Sperlinga ma soprattutto il football, lanciando nel 1909 la Coppa Lipton, importante torneo cui parteciparono tutte le più forti squadre del mezzogiorno, tra cui il Naples -che pure finanziò- e che sarà la più accanita antagonista del Palermo Fbc per l’aggiudicazione finale (1915) del trofeo d’argento.

Oltre che mecenate dello sport, Lipton fu anche molto sensibile ai problemi della società e delle classi disagiate in particolare. Rispose all’appello del Principe di Galles donando 25.000 sterline per la povera gente di Londra, durante la prima guerra mondiale allestì sul suo yacht Erin (che era l’Aegusa acquistato da Florio) un ospedale della Croce Rossa e trasportò un intero ospedale da campo in Francia, e poi chirurghi e personale medico in Serbia che si trovava sotto l’attacco dell’esercito astroungarico. E per testamento donò tutta la cospicua eredità alla sua città natale affinché i proventi fossero distribuiti alle mamme dei ceti poveri e ai loro figli.

Le barche dei Florio e di Lipton richiamano ancora il mare, le regate e le attività velistiche. Già prima della fondazione del Circolo Roggero di Lauria le competizioni di canottaggio erano ben conosciute ed apprezzate a Palermo, che nel 1892 in occasione dell’Esposizione Nazionale ospitò le regate internazionali, alle quali i club cittadini iscrissero due equipaggi “Biddicchia” e “Santuzza”. Mentre Walkyria, yacht stupendo dei Florio, mieteva successi alle regate internazionali di Nizza, anche le imbarcazioni a vela avevano cominciato timidamente ad affacciarsi nelle acque del porto. Il canottaggio però faceva sempre più proseliti ed era sempre più attivo nelle organizzazioni, come questa Coppa Florio di regate nazionali a Villa Igiea del 1910,  e nel 1912 dovette trovarsi una sede più ampia e meno fluttuante del brigantino dei Florio e si accasò alla Cala, un approdo nel porto di Palermo, accanto ad una famosa pescheria.

Vincenzo Florio non aveva ancora conosciuto le Madonie, le sue montagne, quando ancora 17enne conosceva invece già bene il mare. La “rivoluzione balneare”, un mutamento profondo nei comportamenti delle persone che avrebbe portato tutti, uomini e donne, a sguazzare sereni nelle acque della costa di Sferracavallo, aveva anche favorito la diffusione dell’agonismo marino, e nell’elegante specchio della spiaggia dell’Acquasanta si disputò pure il primo campionato provinciale di nuoto, con Vincenzino che ne fu protagonista assoluto sfiorando il successo nelle 100 yards a rana.

Tutto preso dalla smania di provare emozioni nuove tipiche dei suoi 17 anni, si presentò un giorno alla cognata Franca montando un veicolo con due ruote e pedali cui i francesi avevano dato il nome di “velocipède”, un mezzo semplice e geometrico realizzato in acciaio cromato dal fabbro Ernest Michaux (che sarà tra l’altro l’inventore del pedale). La vecchia draisina del barone tedesco Von Drais era andata in pensione. Franca al volo colse l’occasione e con altre fidate compagne avviò un’accanita promozione dell’uso della bicicletta in città. Fu in questo modo che prese il via il movimento delle donne cicliste palermitane. E grazie a Vittorio Coen, un milanese trapiantato a Palermo da trent’anni, ove gestiva il Grande Emporio Americano, e che rimase stregato da una manifestazione ciclistica su pista nel parco di Saint-Cloud nei pressi di Parigi, anche Palermo avrà il suo velodromo, con una pista di 400 metri e una grande tribuna coperta per corse nazionali e internazionali. E al velodromo dei fratelli Coen Franca Florio organizzerà una competizione ufficiale femminile, due giri di pista, e Lei vi parteciperà pure, con Effie Whitaker che non poteva mancare, ed altre otto scalmanate dell’aristocrazia palermitana.

Ma con l’arrivo del XX secolo il ciclismo su pista entrò in crisi ed il Veloce Club Trinacria con il velodromo dovettero chiudere i battenti. Si diffusero tanto invece le corse su strada. Nel 1902 in Sicilia circolavano oltre 10.000 biciclette e nel 1908 Vincenzo Florio, sul modello della manifestazione automobilistica da lui ideata, volle lanciare il primo “Giro Ciclistico di Sicilia” con la partecipazione dei più forti corridori italiani e francesi. Bici e turismo a braccetto per il rilancio della regione. Un prologo sul Circuito delle Madonie e sei tappe, interessando tutte le principali città dell’isola. Ma già da quel prologo si capì che dei partenti solo in pochi avrebbero concluso il giro. Il colpevole fu presto individuato: le strade siciliane, sconnesse e pericolose. Infatti, al termine della seconda tappa, la Messina-Siracusa il francese Alavoine, uno dei favoriti che aveva vinto con forte distacco, fu colto la sera da forti dolori alle gambe e decise di ritirarsi insieme a tutta l’équipe francese “pasque ce tour est massacrant, les routes sont trop dangereuses”. Vincerà il milanese Galetti, che negli anni successivi farà un figurone al Giro d’Italia.

Ma proprio in quello stesso anno, era il 1908, a Messina tremò la terra e fu una tragedia di proporzioni immense, la città dello Stretto era solo un ammasso confuso di pietre e di corpi, servivano aiuti occorrevano fondi per i pochi rimasti in vita, per i profughi, per i parenti dei morti, per i piccoli riemersi senza mamma e senza papà. Per i Florio fu come una chiamata alle armi, non ci pensarono su più di qualche minuto, partirono subito per quell’emergenza, portarono medicine cibo coperte e indumenti, imbarcarono i profughi sulle loro navi, Franca curò i feriti e diede loro da mangiare, poi rientrati a Palermo Vincenzo con Franca organizzarono un grande torneo di scherma al Teatro Massimo per raccogliere fondi, e risposero tutti presente, tutti i più forti della Sicilia, spade e sciabole affermate eredi di grandi maestri, Benfratello Alaimo Vega e Pietro Speciale medaglia d’argento a Stoccolma e altri, altri ancora si ritrovarono per la benefica iniziativa.

Quando il colpo di cannone diede il via libera alla 1^ edizione della Targa Florio Vincenzo Lancia su Fiat partì come un forsennato. Per il pilota quel colpo fu la riconquista dell’agognata libertà personale, che era libertà di pensiero e di azione, era libertà di urlare bestemmiare irridere pentirsi pregare, libertà di guidare secondo un istinto primordiale o come Dio comanda, libertà di accelerare frenare incalzare di creare delirio o sgomento tra gli spettatori, di pigiare al massimo il pedale e fondere il motore, “basta ora”, pensava tra sé Lancia un attimo prima del via, “con tutti questi salamelecchi conte Tizio di qua marchese Caio di là, io sono Lancia Vincenzo di Vercelli e guido le automobili della casa Fiat come pilota collaudatore e devo riferire al dottor Agnelli sulle capacità di resistenza della macchina che mi è stata affidata, quindi ora che finalmente il cannone ha tuonato” pensava tra sé Lancia un attimo dopo il via “io mi scateno per i tornanti in salita verso Cerda e Caltavuturo, e superato Geraci mi scapicollo lungo la discesa che mi porta a Castelbuono, e sul rettilineo di Bonfornello gas al massimo perchè sarò il primo pilota a passare e voglio assolutamente lasciare una bella impressione agli spettatori e alle eleganti e belle signore in tribuna”.

Ma Lancia partì davvero con foga esagerata per una corsa che già si sapeva sarebbe durata all’incirca dieci ore, ora più ora meno. E dopo appena due ore di corsa aveva già bucato due volte, poi nei pressi di Isnello annientò una pecora sfuggita al pastore, finì fuori strada, non si sa come riuscì a ripartire ma il serbatoio ne uscì danneggiato e la benzina cominciò a colarne fuori, alla fine del secondo giro ruppe due cilindri e collerico scese dalla vettura, comunicò ai commissari il ritiro, e buonanotte collaudo e addio vittoria ed ora pensiamo a cosa dire al dottor Agnelli.

Come molti piloti forse anche il francese Hubert Le Blon aveva in passato corso con la foto della moglie sul cruscotto … “pense à moi … Hubert…” e lui la guardava in foto e la pensava ma poi pensò che così si distraeva e si immalinconiva troppo e allora decise di sostituire la foto con la signora Le Blon in carne ed ossa. Si presentarono così i coniugi, la signora con funzioni di navigatore e calmieratore dell’ardimento del marito. La macchina filava come un treno nelle prime posizioni, ma a metà del percorso incappò in una serie incredibile di forature e madame Le Blon non potè far altro che consolare il barbuto marito “patience, mon cher”, accumularono un pesantissimo ritardo, e fu per rispetto alla signora e per la curiosità di vedere una madama in vettura, che al traguardo trovarono ancora tutti ad attenderli e festeggiarli, due ore e mezza dopo il primo, Marley il cronometrista ufficiale i giornalisti e le eleganti signore che vedevano nell’intraprendente madama francese la stella cometa dell’emancipazione femminile, tutti comunque già proiettati al solenne atto finale al Grand Hotel delle Terme, buffet e premiazioni. Abito da sera.

Alessandro Cagno era uno che di odissee in automobile se ne intendeva, uno che nel corso della sua vivace esistenza avrebbe trascinato con maestria e pazienza un autocarro della proprietà Agnelli da Torino a Mosca attraverso l’Europa centrale tutta e in parte pure quella orientale, valicando Alpi e Carpazi, per issare infine nella Piazza Rossa il vessillo della Federazione Italiana Automobili Torino. Uno che alle salite delle Madonie fece presto il callo, uno che l’anno prima aveva scalato il terribile Mont Ventoux nel Massiccio Centrale, la montagna che più si sale più si spelacchia, fino al suo culmine dove trovi solo polvere, polvere e angoscia, una superficie grigia, un’atmosfera lunare, niente abitanti niente tifosi niente vita.  Anche per le strade delle Madonie la polvere spadroneggiava, ma era polvere diversa, non grigia ma bianca, non addolorata ma briosa, polvere viva luminosa raggiante ardente bramosa di farsi violare da carri rumorosi veloci moderni, era polvere antica ma al passo coi tempi.

Fortuna e abilità per Cagno, esperienza e destrezza, andatura regolare dall’inizio alla fine, e le curve finali da trionfatore, dopo 9 ore e 32 minuti, preceduto da un altro colpo di cannone, con le prime vedette della massa che dai campi e dalle piccole alture vicine tutto ignorando e tutto travolgendo si riversava ai bordi della strada mescolata di gioia e di polvere, e l’altra massa che un minuto prima si ingozzava felice al ristorante di Florio, ora sul rettilineo d’arrivo -ancora per poco ordinata e flemmatica- aspettava fremente un messaggio un annuncio un’apparizione. Quella massa accompagnò il vincitore sin dalle ultime curve con la forza dell’immaginazione,  poi lo identificò “è il numero 3, è Cagno su Itala!” e fu un passa parola più veloce della sua pur velocissima vettura, e la massa lo riconobbe pur sommerso dalla polvere e lo salutò lo omaggiò lo osannò, e la massa non si dissolse affatto dopo l’arrivo di Cagno, restò imperterrita e ansiosa per tutti gli altri arrivi, pacche sulle spalle a tutti, congratulazioni a tutti, soprattutto ai piloti sfortunati e ai ritirati, e incontrato infine Don Vincenzo Florio ancora trepidante per la tensione e l’ebbrezza degli avvenimenti lo rassicurò e lo incitò “forza cavaliere, era la prima edizione, l’importante era partire…”

Donna Franca Florio (1873-1950)

Nella foto in home page:

Alessandro Cagno (1883-1971) con la Italia 45HP alla Targa Florio del 1907

Comments

  1. Testo notevolissimo, per contenuti, dettagli ed aspetto estetico, che precede i libri sui Florio di Stefania Auci, l’autrice che negli ultimi anni ha pubblicato due libri che narrano la saga della famiglia Florio.

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