dal Seminario “SPORT E SOCIETA’” – Milano, USR per la Lombardia in collaborazione con l’associazione Alexandria (a.s. 2013-2014)

di Vincenzo Pennone

(*) Il titolo che si è dato a questo intervento “Londra 1908, la prima vera Olimpiade dell’era moderna” non afferma una verità assoluta, perché a parere di molti storici questo fregio “la prima vera Olimpiade” può essere conteso tra Londra appunto ed Atene. Non tanto per la prima edizione dei Giochi, quelli del 1896, un’edizione sofferta essendo la prima del nuovo corso, quanto per quella del 1906, dei cosiddetti “Giochi intermedi” -Giochi mai riconosciuti ufficialmente dal Comitato Internazionale Olimpico- che i greci vollero fermamente per celebrare il decennale della 1^ edizione, e che si rivelarono un vero successo organizzativo con grande beneficio per il movimento olimpico.

Di certo invece di “vera olimpiade” non si potè parlare nei riguardi né dei Giochi di Parigi del 1900 né di quelli di St.Louis del 1904.

A Parigi gli organizzatori, che non avevano ben capito cosa il barone e gli altri promotori della rinascita olimpica intendessero per Olimpiadi, (*) inglobarono le gare nel grande evento dell’Esposizione Universale. Padiglioni e prove sportive mescolati allegramente e fraternamente, con De Coubertin seriamente preoccupato. Un numero enorme di gare, legate alle sezioni della Fiera, (*) gare spesso bizzarre come questa arrampicata su scale o come quella (*) dei 200 ostacoli nel nuoto, dove c’era un po’ di tutto inerpicarsi su un palo, ponti di barche da scavalcare, nuoto subacqueo sotto file di imbarcazioni, punti assegnati per ogni metro nuotato e per ogni secondo trascorso sott’acqua, il tutto nelle fredde e inquinate acque della Senna, tanto per intenderci un po’ come “les jeux sans frontières” dei nostri anni ‘70. (*) E nell’atletica una pista disseminata di buche e rettilineo finale tra gli alberi, le pedane immerse in una rigogliosa vegetazione, i lanciatori scagliavano il disco e poi frugavano tra i rami. (*) Vollero dare anche un pizzico di snobismo con l’inclusione del golf, che avrebbe fatto un’apparizione olimpica molto breve.

(*) Ma a Saint Louis 4 anni dopo andò peggio. Anche stavolta l’Olimpiade fu infilata in una grande Fiera, la Louisiana Purchase Exposition. (*) Milioni di visitatori per l’Esposizione, una miseria il pubblico alle manifestazioni sportive. (*) Di nuovo nel nuoto si toccarono gli eccessi dell’approssimazione organizzativa, per le gare si costruì un bacino artificiale (*) poco più grande di uno stagno dove facevano pure abbeverare e lavare gli animali in mostra all’Esposizione, così quattro pallanotisti morirono di tifo dopo la conclusione dei Giochi. La corsa di maratona fu un concentrato di disorganizzazione generale, di fatti curiosi e dissacranti e di personaggi eccentrici. (*) Tra questi Fred Lorz, un americano (al centro con la maglietta scura) protagonista di uno dei più clamorosi tentativi d’inganno perpetrati nella storia dei Giochi: dopo circa 14 chilometri di gara condotta in testa, quando arrivò la crisi si infilò in una macchina e rispuntò in testa a tutti a pochi chilometri dal traguardo -fresco e pettinato- per fruire e godere del bacio della figlia del Presidente degli Stati Uniti Alice Roosevelt. Mentre Felix Carvajal, un postino cubano che sulla nave per New Orleans aveva perso al gioco tutti i soldi racimolati in patria, (*) e si presentò così alla partenza, vestito con pantaloni lunghi e scarponi pesanti raccattati per strada. (*) Eppure fu uno dei protagonisti della maratona, e sfiorò il podio pur in grande sofferenza per essersi ingozzato di mele acerbe raccolte da un albero lungo il percorso.

Ma l’affronto vero allo spirito olimpico furono (*) le “Giornate Antropologiche” coordinate nientedimeno che dall’Università di St. Louis. Dissero che era un esperimento scientifico volto a mostrare le capacità atletiche di razze diverse; in effetti volevano solo richiamare il maggior numero possibile di spettatori con un vero e proprio spettacolo da circo, una serie di prove riservate a popolazioni della Patagonia, a inuit, a nativi americani guidati dal 75enne leggendario capo Apache Geronimo, a filippini, a cocopa (messicani), a pigmei (in questa immagine in attesa di affrontare una gara di hockey su prato), a kaffir sudafricani e ad altre minoranze per loro selvagge e inferiori rispetto alla razza bianca, nel sollazzo più smaccato del pubblico convenuto e per la disperazione di un De Coubertin scandalizzato.

Ricordati questi fatti, vediamo adesso come si arrivò alla scelta di Londra per i Giochi del 1908.

(*) Quattro anni prima (22 giugno 1904) il C.I.O., pressato da De Coubertin che voleva a ogni costo recuperare il senso della classicità olimpica, assegnò a Roma con voto unanime l’organizzazione della IV Olimpiade. Allora il barone si mise di buzzo buono e per coronare il suo sogno incontrò e blandì tutti i possibili personaggi illustri dell’Italia dell’epoca: prima il re Vittorio Emanuele III, poi il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, quindi il sindaco di Roma Prospero Colonna e concluse questo pellegrinaggio alla Santa Sede, dove fu ricevuto dal segretario di stato cardinale Rafael Merry de Val y Zulueta. Sembrava che la cosa potesse prendere piede, tra Piazza di Siena Tor di Quinto le Terme di Caracalla, Piazza d’Armi e il fiume Tevere si poteva realizzare tutto il programma olimpico, ma il tempo passava, le disgrazie in Italia si moltiplicavano, prima il terremoto in Calabria (Settembre 1905), poi l’eruzione del Vesuvio (Aprile 1906), i governi cominciarono a darsi il cambio come gli staffettisti dell’atletica, Giolitti a Fortis, Fortis a Sonnino, Sonnino di nuovo a Giolitti, si insediarono commissioni di fattibilità, che studiarono studiarono studiarono di tutto tranne come trovare il denaro necessario per il grande evento, fino a quando Giolitti informò tutti che, più che di Olimpiadi, sarebbe stato meglio parlare del traforo del Sempione e dell’acquedotto in Puglia.

Nell’aprile del 1906 Roma rinunciava ufficialmente all’organizzazione olimpica. Interpellata d’urgenza, Londra si dichiarò disponibile.

(*) 67 atleti italiani, tutti rigorosamente uomini, partirono il 9 Luglio da Torino in terza classe via Modane e Parigi, budget 140 lire per atleta compreso un pasto all’andata e uno al ritorno, ed un altro offerto dall’Ambasciatore Italiano la vigilia dell’apertura dei Giochi (*) Il 13 luglio allo stadio di White City una sobria cerimonia d’apertura, (*) ancora senza giuramenti tripodi e fiaccole olimpiche, diede l’avvio alla IV^ edizione dei Giochi moderni. In tribuna, ovviamente, c’erano le monarchie d’Europa (*) i reali d’Inghilterra Edoardo VII e la regina Alessandra, i sovrani di Grecia Svezia e Norvegia, c’era (*) Lord Desborough presidente del Comitato Organizzatore, (*) c’era il principe Scipione Borghese membro del C.I.O., quello del celebre raid automobilistico Pechino-Parigi su Itala con l’inseparabile Luigi Barzini lo scrittore inviato del Corriere della Sera, c’era naturalmente De Coubertin e al suo fianco il segretario generale (*) Eugenio Brunetta d’Usseaux, piemontese, personaggio singolare sposato con la contessa russa Catherine Zeiffart di Pietroburgo. (*) E c’era anche Arthur Conan Doyle, il celebre scrittore che aveva inventato il personaggio di Sherlock Holmes, e che seguiva l’evento come corrispondente del Daily Mail.

(*) Alcuni tornei erano già stati disputati alcuni giorni prima, come il tennis per esempio, con le britanniche Lambert Chambers e Boothby finaliste del torneo outdoor, (*) e il grande Reginal Doherty dominatore per 10 anni col fratello Laurie del tennis mondiale (*) come il tiro a segno con Oscar e Alfred Swahn, svedesi, padre e figlio, il barbuto che esordì vittorioso all’Olimpiade all’età di 60 anni e 264 giorni, poi il tiro a volo e altre discipline alcune tipicamente inglesi come le “racquets” (*) e il polo, e il jeu de pomme (pallacorda).

Dopo l’inaugurazione presero avvio molte altre discipline, (*) il tiro con l’arco con Sybil Newall (Quinee) 53enne vincitrice del torneo femminile, (*) la ginnastica individuale e a squadre (*) il ciclismo con i britannici sempre in prima linea, tutto o quasi si disputò all’interno dello Stadio di White City comprese (*) le gare di nuoto e di pallanuoto che per la prima volta utilizzarono anziché i fiumi la piscina (*). Calcio rugby hockey e pugilato si rimandarono al mese di Ottobre. (*) Come pure il pattinaggio su ghiaccio ovviamente, ospite originale delle Olimpiadi estive. Protagonisti lo svedese Ulrich Salchow, che sarà anche campione mondiale per 11 anni consecutivi (1901-1911), e regalerà il suo nome ad uno dei principali salti della specialità; (*) e tra le donne Florence “Madge” Syers, già rinomata e temuta per avere sconfitto ai mondiali di figura del 1902 tutti i pattinatori maschi tranne Salchow, che da gran gentiluomo per rispetto e cavalleria le regalò il suo trofeo.

Quasi subito prese pure avvio una rivalità dai contorni particolarmente roventi tra gli inglesi e gli americani. In tribuna qualcuno perplesso ricordava che era trascorso più di un secolo dal famoso “Boston Tea Party”, (*) cioè da quando, nel 1773, i figli della libertà rovesciarono in mare il carico di tè dalle navi inglesi nel porto di Boston, e così era esploso il conflitto che sarebbe andato avanti per 8 anni e che si sarebbe concluso con la dichiarazione di indipendenza delle tredici colonie americane dalla madrepatria (*) e la nascita degli Stati Uniti d’America, ma anche più di un secolo dopo le antiche tensioni non si erano del tutto dissolte, e bastava una qualsiasi occasione per far riaccendere la miccia.

(*) A Londra se ne incaricò il lanciatore di peso e alfiere della squadra americana Ralph Rose, che era incavolato nero perché nella cerimonia d’apertura, mentre il gran pavese colorava lo stadio, la bandiera a stelle e strisce l’avevano dimenticata in magazzino: allora al passaggio davanti al palco reale sfidò il protocollo ignorando re e regina marciando solenne bandiera al vento sguardo sprezzante in avanti, e a chi sgomento gli chiese ma perché fai ciò? lui rispose “because this flag dips before no earthly king – questa bandiera non si abbassa davanti ad un re terreno”.

Ci furono diversi momenti di attrito tra le due rappresentative, (*) nel tiro alla fune gli americani sporsero reclamo perché secondo loro gli inglesi –nello specifico i poliziotti di Liverpool- avevano usato scarpe truccate, munite di chiodi per far presa sul terreno, e nella maratona furono gli inglesi, che consideravano il fondo un loro protettorato ed erano usciti bastonati con il primo maratoneta – Clarke- solamente 12° al traguardo, furono loro ad azzardare una forma di reclamo perché “Johnny Hayes was illegally helped by Mr.Jack Andrew”. (*) Ma l’unica prova del supposto aiuto illegale era questa foto, che non provava praticamente nulla.

(*) La contesa raggiunse l’apice nella gara dei 400 metri. Sulla pista non erano tracciate le corsie, e John Carpenter, americano, con una bella eclatante ostruzione ai danni dello scozzese Halswelle, vinse la finale. Quindi squalifica e decisione della giuria di farla ripetere due giorni dopo. Ma i compagni di Carpenter Taylor e Robbins, dissero “per noi ha vinto John, fate quello che volete tanto noi non corriamo”, e allora, fatto curioso nella storia dei Giochi Olimpici, quella fu l’unica finale cui prese parte un solo atleta, appunto lo scozzese Halswelle.

L’onore nazionale delle ex colonie era così messo al sicuro, ma tanto per “non dimenticare” al ritorno in patria ricevuti da trionfatori al Municipio di New York, gli americani tronfi e spocchiosi si presentarono portando al guinzaglio un leone britannico in catene: re Edoardo andò su tutte le furie “e si sfiorò l’incidente diplomatico”, ricorderà De Coubertin nelle sue “Memorie Olimpiche”.

E’ giusto però rammentare che gli americani primeggiarono comunque in una infinità di gare. (*) Avevano in squadra una specie di “rana umana”: Raymond Ewry. Che ebbe un’infanzia travagliata, era fragile e malaticcio, e sopravvisse – puro miracolo- a un attacco di poliomelite, finì sulla sedia a rotelle, ma poi con un intenso programma di rieducazione muscolare avvenne il secondo miracolo, e quel ragazzo gracile e malaticcio si trasformò nel più grande saltatore al mondo del primo ventennio del novecento. Straordinaria vicenda che ne richiama altre, analoghe, di atleti più conosciuti dello sport americano: (*) ad esempio quelle di Johnny Weismueller e di Wilma Rudolph, entrambi da piccoli colpiti dalla polio. (*) Ewry eccelleva nei salti da fermo, sia in alto che in lungo, e aveva cominciato a vincere medaglie d’oro già 8 anni prima a Parigi, (*) a Londra lottò aspramente per avere la meglio sul greco (*) Tsiklitiras nella prova del salto in lungo. Gli americani avevano in squadra (*) anche eccellenti lanciatori, come Martin Sheridan vincitore del lancio del disco (*) e John Flanagan di quello del martello. (*) e ottimi corridori, come Melvin Sheppard che mise in riga due inglesi nientemeno che nei 1500, vale a dire nel loro territorio di caccia, e una settimana dopo fece doppietta negli 800, (*) gara in cui Emilio Lunghi, un marinaio genovese dotato di un fisico superbo, (*) conquistò per l’Italia la medaglia d’argento. (ecco Lunghi in posizione di partenza, in quello che sembra essere il primo nudo fotografico nella storia dello sport).

La maggior parte dei nostri connazionali non superò i turni eliminatori, ma bastarono un paio di nomi per ribaltare l’esito della spedizione (10^), e tenere così buono il presidente del consiglio Giolitti.

(*) Uno di questi fu Alberto Braglia, figlio di un muratore, cresciuto nelle famose Fratellanza e Panaro di Modena. Braglia (*) era un ginnasta sublime, che a Londra, davanti ai giudici increduli, fece togliere le maniglie al cavallo ed eseguì le sue “milanesi” (così si chiamavano i volteggi) con stile inimitabile conquistando la medaglia d’oro. (*) Quattro anni dopo farà ancora meglio, vincendo l’individuale e il concorso a squadre cui si riferisce quest’immagine.

(*) Un altro fu Enrico Porro, un marinaio nativo di Lodi, milanese di adozione, che vinse la medaglia d’oro nei pesi leggeri della lotta greco-romana. Quattro anni prima doveva andare a St.Louis ma venne la chiamata alle armi.

“Naturalmente finì in marina”, così scrisse di lui Luigi Gianoli, grande giornalista della Gazzetta “si pavoneggiava con la divisa blu, il solino bianco, (*) e nelle balere della Spezia divenne un idolo, con le sue orecchie a sventola, i suoi occhi azzurri, il suo sorriso furbo di Porta Ticinese, i suoi modi di sommario dongiovanni, i capelli spartiti sulla fronte”.

Gara dopo gara, medaglia dopo medaglia, si giunse così al 24 luglio, quando erano in programma diverse finali, ma una gara in particolare era attesa con ansia patriottica dai londinesi e con curiosità da tutti: era la corsa di maratona.

56 corridori si presentarono alla partenza, sul lato orientale del Castello di Windsor. (*) Perché proprio da lì: perché la duchessa di York e futura Queen Mary, quando furono comunicati i dettagli del tracciato della maratona, compreso il da dove e il fino a dove, esclamò “Oh my God…così i miei figlioli non potranno assistere alla partenza di questa gara così affascinante e originale”. Ed allora gli organizzatori, intuito che le parole della duchessa più che un rammarico erano un invito informale a fare qualcosa affinchè si potesse porre rimedio a quella spiacevole eventualità, e posto che di far spostare i sei rampolli reali fino al punto di partenza programmato non se ne parlava proprio, decisero invece di spostare la partenza di circa un miglio retrocedendola sino al castello reale. (*) E così la corsa londinese di maratona, inizialmente programmata su una distanza di 25 miglia, aggiungendo un miglio alla partenza e 385 yards all’arrivo, cioè quelle intercorrenti dall’ingresso dello stadio sino al filo di lana, risultò misurare 26 miglia e 385 yards, cioè 42 chilometri e 195 metri. La duchessa di York quindi era riuscita a mettere d’accordo tutti: da quel giorno le maratone del mondo sarebbero state corse su quella eccentrica ed originale distanza.

I 56 venivano un po’ da ovunque, c’era gente già ben conosciuta come ad esempio il sudafricano Hefferon, gli inglesi tanti, Duncan Beale Lord Price, assolutamente convinti di recitare la parte dei protagonisti, (*) c’era un pellerossa canadese della tribù degli onondaga, Thomas Longboat, da tre anni vincitore della maratona di Toronto e un anno prima di quella celebre di Boston, (*) e poi gli americani Tewanima Hatch Forshaw Morissey Johnny Hayes, e c’erano pure un paio di italiani, uno dei quali nell’elenco degli iscritti veniva segnalato come Dorando o Durando P la p puntata. Si trattava in effetti di Pietri, Dorando Pietri, un corridore emiliano anch’egli ben conosciuto nell’ambiente per alcune ottime prestazioni ottenute nelle lunghe distanze, tra le quali la maratona di Parigi di tre anni prima.

(*) A Villa Mandrio frazione di Correggio vicino Carpi provincia di Modena Dorando Pietri era nato il 16 ottobre 1885 da Desiderio Pietri e Maria Teresa Incerti. (*) Il padre era fittavolo, massaia la madre. Dorando era il terzo di quattro fratelli e come è facile immaginare ebbe un’istruzione appena appena accettabile, cominciata e terminata dopo pochi anni (*) in questa scuola, e certificata da una breve e inequivocabile formula: “sa leggere e scrivere”. Correggio era un piccolo comune che aveva avuto il suo momento di gloria tre secoli prima quando era stato elevato al rango di città col privilegio di battere moneta (metà del ‘500) da Ferdinando 1° d’Asburgo, e che aveva dato i natali ad Antonio Allegri, (*) detto appunto il Correggio, uno dei più grandi pittori italiani del ‘500. Ma ora viveva in maniera più anonima e modesta, l’economia compromessa dalla crisi agraria e dall’assenza di risorse industriali, (*) era una crisi che investiva vaste aree circostanti e che costringeva famiglie intere a lasciare le tradizionali ma improduttive occupazioni e a trasferirsi altrove, come nelle campagne ostiensi, alla ricerca di qualcosa di meglio, (*) erano vere e proprie migrazioni di povertà, ferite laceranti che Andrea Costa, uno dei padri del socialismo italiano, denunciò pesantemente: e altrettanto modesta era la vita della famiglia Pietri che si reggeva sui prodotti della coltivazione di un piccolo orto (ca.1400 mq.). “Così non potremo andare avanti ancora per molto” disse il padre alla moglie Teresa, (*) e nel 1897 ordinò allora l’emigrazione della famiglia, presero il treno e si spostarono a Carpi: (*) lì a Porta Modena aprì un negozio di frutta e verdura.

A Carpi, pure in una situazione generale di depressione economica, erano gli anni felici per l’industria del truciolo, (*) cioè la lavorazione di trucioli di legno tratto dai tronchi di salice e pioppo per farne trecce e cappelli di paglia d’ogni foggia. (*) Vi lavoravano tutti, uomini e donne, bambini e vecchi, gente di tutti i ceti sociali, e lo stesso Dorando per arrotondare il magro reddito familiare vi si applicò come lavorante stagionale.

(*) Ma all’età di 14 anni Dorando fece un deciso salto nella scala sociale ottenendo il primo impiego fisso nella pasticceria Roma di Pasquale Melli. Questo impiego, che determinerà poi la coniazione dell’appellativo “il fornaio di Carpi” (*) consentirà comunque al giovanotto di fruire –tra uova zucchero e pasticcini che circolavano liberamente nel laboratorio – (*) di un quantitativo energetico che a casa propria si sarebbe sognato.

(*) Dorando voleva diventare ciclista. Non c’era ancora il Giro d’Italia ma a Carpi il movimento era già vivace, si organizzavano anche gare dietro motori, Dorando pedalava e prometteva bene (*) ma a Modena in una di queste gare franò rovinosamente a terra insieme con la moto, ed il morale al suo fianco.

Frattanto, era il 1904, passò da Carpi un famoso podista dell’epoca, il romano Pericle Pagliani, che insieme ad Achille Bargossi e pochi altri, costituiva il nucleo di podisti professionisti che giravano la penisola per raccogliere denaro con le proprie rappresentazioni sportive. (*) Tracciò un percorso nella Piazza Vittorio Emanuele perché voleva battere il record della mezz’ora di corsa. Quando scattò Pietri lo vide e non capì più niente, si gettò sul tracciato e riuscì a seguire Pagliani per molti giri, del tutto sordo alle voci di scherno che arrivavano dalla gente.

Folgorante come la conversione di San Paolo, fu quindi anche quella di Pietri verso il suo nuovo credo, il podismo.

A Carpi, prima ancora che lui nascesse, sulla spinta del fermento associativo emiliano, era stata fondata la Società Ginnastica La Patria con il fine (*) –come si legge nell’atto costitutivo- “di preservare lo sviluppo delle forze fisiche della gioventù e coltivare altresì lo spirito di aggregazione e fratellanza tra i cittadini di ogni classe, nell’interesse supremo della Patria”. (*) Presidente l’ingegnere Alfredo Benassi, e all’età di 18 anni il pasticciere Dorando entrò a farvi parte.

Patriottismo, solidarietà tra le classi sociali, ed ancora nello Statuto nessun accenno alla apoliticità e aconfessionalità del sodalizio, che all’epoca –abbinate- erano una “conditio sine qua non” per entrare a far parte della famiglia dello sport italiano, era questo un segnale palese di voglia di autonomia, di autonomia e di non neutralità quindi, scelte sociali che si inoltravano però in un sentiero irto di difficoltà e di ostacoli. Infatti vi inciampò subito proprio Alfredo Benassi il presidente, quando il 20 Settembre del 1878 ebbe l’ardire e l’ardore di procedere alla commemorazione della breccia di Porta Pia. Infatti parecchi soci, come riportato su “Ginnastica Libera” (*) “ebbero ad esprimere parole di biasimo all’indirizzo del Presidente, imperocchè, secondo essi, egli erasi permesso di manifestare massime non troppo ortodosse, opinioni politiche avanzatissime e forse non divise dalla maggioranza dei soci”.

Quattro giorni dopo Benassi rassegnò le dimissioni, non prima avere ricordato il suo pensiero secondo cui (*) “le associazioni, perché rispondano al loro scopo più elevato, debbano essere altrettante scuole di educazione nazionale e, quindi all’occorrenza occuparsi di politica, che è il complesso dei più vitali interessi della Patria e dell’Umanità”.

Ho voluto fare questo cenno sulla collocazione ideologica della Società Ginnastica La Patria di Carpi perché al termine del mio intervento Sergio Giuntini amplierà e completerà l’argomento che è stato oggetto delle sue ricerche e dei suoi studi, in parte anche riportati in questo suo libro “Dalla via Emilia al West”.

Già nel primo anno di dedizione piena alla corsa, Dorando riportò numerosi successi, ma di uno in particolare si arricchì il suo curriculum: (*) quello (VI edizione) della prestigiosa maratona di Parigi organizzata da Henry Desgrange l’inventore del Tour de France, che con enfasi aveva annunciato “l’engagement du célèbre coureur italien Pietri Dorando: furono 30 km. tutti in testa, dal primo metro all’ultimo, e Bonheure l’eroe di casa distaccato di sei minuti.

Ma a Novembre del 1905 suonò la tromba dell’adunata (*) e fu assegnato al 25° fanteria di stanza a Torino. Per Dorando era un problema serio, servire la patria e allenarsi duramente erano due faccende che non era facile far camminare in parallelo senza il rischio di collisione.

Allora cominciò a chiedere aiuto in giro, riuscì pure a scrivere o a farsi aiutare a scrivere lettere a tutti quelli che conosceva. E tanto chiese e tanto scrisse che ottenne di essere trasferito alla Società Atalanta di Mario Luigi Mina, uno dei nomi illustri dell’atletica italiana dell’epoca. Ciò gli consentì di allenarsi per bene e di gareggiare spesso, sia pure in prevalenza nel comprensorio piemontese, Arona Gravellona Pallanza Torino…

Così fu spedito ad Atene per i Giochi intermedi del 1906, ma fu corsa ingloriosa, perché nelle prime posizioni per buona parte della gara Dorando dovette ritirarsi (24° chilometro) per dolori intestinali, (*) nella corsa che vide vittorioso il canadese Sherring accompagnato sul rettilineo finale da Giorgio, principe di Grecia e del fair-play.

(*) Frattanto si era innamorato. Di questa giovane in piedi a destra con i parenti, Teresa Dondi, e come per tutti i giovani innamorati vi fu uno scambio epistolare, una lettera (*) una cartolina postale, un pensiero da Torino e una dichiarazione ufficiale d’amore, in parte nascosta dal francobollo (*) “chi le scrive è Dorando che le ricorda di amarla e di perdonare i dispiaceri procurati”. Avrebbero vissuto insieme per 33 anni.

Digerita la delusione ateniese, espletato l’obbligo di leva, ritornato -figliol prodigo- alla Società La Patria, l’anno dopo Pietri tornò alle gare più convinto che mai. (*) Sfidò i migliori specialisti nostrani del mezzofondo sui 1000 e sui 5000 a Piazza di Siena, e non dimenticò le prove lunghe, da 20 km. in su. Poi, sul finire dell’anno, si ritirò nella sua Carpi, una specie di ritiro spirituale in vista dell’anno più importante della sua vita, il 1908.

Pietri, come gli altri 66 della compagnia nazionale, (*) partì la sera del 9 luglio dalla stazione di Torino, via Modane e Parigi, alla volta di Londra, dove arrivò 36 ore dopo, dove incontrò suo fratello Ulpiano (*) che era lì per fare il cameriere e dove si sistemò a Soho nel West End della città in un albergo di italiani. Di quel che fece il buon Dorando nei 13 giorni intercorrenti tra l’arrivo a Londra e la maratona olimpica gli storici ci fanno un resoconto dettagliato, direi quasi giorno per giorno: in sintesi una triste gara olimpica a squadre sulle 3 miglia conclusa con il ritiro, e poi una serie di duri allenamenti anche per conoscere le strade londinesi punteggiate di salite che Dorando apprezzava molto perché “mi scaldano i garretti e i miei polmoni ne godono quando le affronto”.

(*) Ma poiché da che mondo è mondo si sa che la trasferta sportiva è l’occasione d’oro per dare sfogo al desiderio di libertà e di conoscenza che dimora in ciascuno di noi e che si esalta proprio quando si è lontani da casa, vogliamo che Dorando nelle ore libere non sia andato in giro per la città, chessò insieme a Porro Lunghi e Pagliani maratoneta che teneva il diario di bordo (*) forse Giovedì potremmo visitare la Torre dell’orologio, qui la chiamano Big Ben, oltretutto si trova sul percorso di gara ed è giusto dargli un’occhiata, Venerdì allenamento… e poi arrivò suo fratello Ulpiano e disse alla comitiva Sabato per esempio (*) è una buona giornata per il mercato, il “Petticoat Lane Market” che è sempre affollatissimo perché lì trovi tutto quello che vuoi Dorando -giacche pantaloni berretti- e a Piccadilly non ci andate (*) a Piccadilly ci sono statue teatri negozi ristoranti e c’è gente gente di tutti i tipi, e due anni fa hanno aperto pure la stazione dell’underground a Piccadilly, perchè (*) qui a Londra c’è un treno sotterraneo, lo chiamano “the tube” che ti sposta la gente da una parte all’altra della città in pochi minuti. (*) Lunedì vi porto a Trafalgar Square dove c’è una gran colonna con la statua di un ammiraglio che sconfisse Napoleone, e poi facciamo un giro per la città, (*) anche se c’è nebbia, c’è sempre nebbia qua pure in estate, ci prendiamo (*) the bus number nine che ci porta a Lensington, e Giovedì 23, il giorno prima della gara, (*) lo dedichiamo a “Tower Bridge” che sarebbe il ponte il ponte di Londra … come fai Dorando a tornare a Carpi senza aver visto Tower Bridge cosa rispondi a chi te lo chiede …

(*) Al Castello di Windsor tutto era pronto per la partenza della maratona. La duchessa aveva ottenuto il suo scopo, i sei figlioli -Edward Albert Victoria Henry George e John- schiamazzavano allegri chiedendosi cosa ci avesse visto la madre di così interessante nella partenza di una gara, quando tutti sono insieme ammassati e sembrano tutti uguali, gli inglesi come i canadesi, i sudafricani come gli americani, molto meglio sarebbe stato seguire la maratona lungo il percorso, o all’arrivo, lì almeno si capisce chi ha vinto e chi ha perso.

Gli accadimenti della maratona di Londra sono descritti con dovizia di particolari nel rapporto ufficiale del Comitato organizzatore, e nelle diverse cronache giornalistiche dell’epoca. Devo dirvi però che c’è un poemetto, definito “diario apocrifo di Dorando Pietri”, che meglio di qualsiasi rapporto ufficiale o cronaca descrive le molteplici sensazioni che la corsa di Londra possa aver trasmesso. E’ di un poeta sardo della metà del novecento non molto conosciuto, Giovanni Floris, e ho pensato di leggerne alcuni passi.

(*) Siam venuti in terza portando tutto da casa come i frati, come i poveri di tutto il mondo. Questa Londra è misteriosa e grande, tanto grande. La maratona è roba da poveri come il regno dei Cieli. Non conta come si viaggia ma come si taglia il traguardo. (*) Londra, 23 Luglio Per vincere darei le gambe gli occhi, un pezzo di cuore. La strada è come la vita:

troppo amata è gelosa, non perdona.

Ogni vittoria va pagata.

……………………….

Domani si corre. Mi ricordo d’un italiano che per gareggiare andò a piedi fino ad Atene, da Milano. Giancarlo Airoldi: un cuore come una torre!

Domani me lo voglio ricordare. (*) Londra, 24 Luglio Avete mai avuto paura d’una donna, dell’amore? Era una cosa così, una paura, così. Perché è solo ogni atleta in gara, ma nessuno come il maratoneta quanto il maratoneta alla partenza. Respira dopo ogni assalto il pugile, lo schermitore, e sognano, in un lampo, sulla pista, il saltatore e il velocista.

Ma a noi di maratona la pazienza è tutto. (*) Tutto nostro è l’onore d’una solitudine lunga di quella che dà paura. Ed eravamo tutti di paura … di paura e di nebbia.

Ci vedevamo come fantasmi.

(*) Poi, finalmente, via!

Correre, correre, correre.Tu con la strada e la strada con te.

(*) La corsa partì alle 14.33, il tempo era bello ma umido e il termometro segnava 26 gradi. (*) C’era una discesa subito dopo la partenza e i britannici boriosi lanciarono il guanto di sfida. (*) Thomas Jack dettava un ritmo forsennato e faceva selezione. Dietro di lui altri tre atleti di Sua Maestà, Price Lord e Duncan. Ma il forsennato Jack si ritirò alle 5 miglia, (*) Price allora prese la testa, e dopo 13 miglia di corsa aveva 41 secondi di vantaggio su Hefferon, un sudafricano molto quotato che precedeva Lord. Poi Hefferon attaccò con decisione, lasciò Price al suo destino e alle 15 miglia precedeva Lord di 2 minuti. Sul britannico però erano in forte recupero due concorrenti: il pellerossa canadese Longboat e poi, solitario, (*) un piccolo corridore dalla maglietta bianca e i calzoncini rossi, numero 19. “Who’s him? Chi sarà mai?”

In mezzo a tanta folla sono solo.

(*) Io con la strada e la strada con me.

Case, alberi, case, prati, case, foreste, un fiume, un grande forte fiume. Non sento che il mio cuore e le scarpette degli altri, uguali alle mie scarpette ed al mio cuore. Nelle membra già calde la paura si scioglie, si fa dolce. Le forti, care gambe, ubbidiscono come braccia,

il respiro pacifico mi penetra fino alle ossa ed il cuore mi sta comodo come un pascià.

(*) La strada mi viene incontro e saltella felice, mi sorride.

Forza, Dorando!

La strada felice saltella, sorride a tutti.

  (*) Pietri e Longboat raggiunsero e staccarono Lord, ma poco dopo il pellerossa entrò in crisi: l’allenatore lo massaggiò e innaffiò di champagne, ma tutto fu inutile, perché la crisi nella maratona è quasi sempre irreversibile, l’indiano si fermò, riprese al passo, si ritirò al 17° miglio. Ne mancavano 9 al termine. Pietri era di nuovo solo, soffriva ma adesso era secondo. (*) Il sudafricano era lontano, però, molto lontano, alle 20 miglia aveva quasi 4 minuti di vantaggio sull’italiano.   (*) Comincia la terra in bocca Mi spunta in gola un ciuffo di ed il duro nelle viscere. fuoco.    

Sorridono donne da un prato, il sole sembra luna, ma il cuore è nelle scarpette e le scarpette sulla grande strada. Secondi come minuti minuti come le ore.

……………………………………..

(*) La stanchezza viene così: la testa diventa una nube e le gambe di gomma. (*) Stringo più forte i pugni, comincio a stringere i denti, dò di gomiti, spingo. Mezza borraccia d’acqua sui capelli e un sorso sul ciuffo di fuoco.

(*) Beati voi, alberi!

Infatti, mentre Dorando iniziava un parziale recupero su Hefferon, con una tattica accorta l’americano Johnny Hayes risaliva posizioni su posizioni.  

Mi piacerebbe mettere radici! Ho un polipo nelle viscere e voglia di masticare. Ma chi ha fame non vince ed io sono qui per vincere. Quant’è che si corre, quant’è? (*) Allungo, ma ai miei talloni l’americano è peggio della fame.

(*) Ritorna la paura o un’altra cosa strana, una nausea, ma dolce, fina fina, un desiderio di dormire in piedi con le mani dietro la nuca, di correre dietro le gambe come dietro due persone. Provo a dire uno due, uno due, ma non mi sento la voce,

sento solo dei passi sulla strada e il mio cuore che da lontano fa come le scarpette, uno due uno due uno due. Mezza borraccia in gola e mezza sui capelli.

  (*) Alla Torre dell’orologio, dopo 23 miglia, Hefferon aveva ancora due minuti di vantaggio sull’italiano, (*) mentre Johnny Hayes inseguiva a sei minuti.

Il traguardo mi affiora dal cervello, è l’ora di stringere i denti e d’allungare, di passare in testa.

(*) Gente a cataste ai lati della strada

Saluti, acclamazioni. Quanto manca, ditemi, quanto manca?

“E’ là”, mi dicono “forza pure” i tuoi passi vittoriosi,

(*) è tutto là, stadio, traguardo, onore, un gran pennone per il tricolore, l’apoteosi, l’immortalità.

Mi sento le gambe d’osso, brucio tutto, dai bronchi alle narici.

Ditemi quanto manca? (*) Mi sento morire, ma posso spingere ancora, allungare. (*) Ma dov’è lo stadio, il traguardo dov’è? Sotto i veli dell’alito lo sguardo mi s’annebbia.

Dov’è?

Dov’è il traguardo?

(*) Ah Londra sterminata!

Ho i denti dentro i denti

e le viscere nella gola.

  (*) Galvanizzato dall’incitamento della folla, a due chilometri dall’arrivo poco prima di Wormwood Scrubbs, Pietri raggiunse e superò Hefferon. Ancora un chilometro e iniziò il calvario, l’ascesa al Golgota del piccolo maratoneta

Mai fu così mortale una volata.

emiliano.

(*) Ed ecco, quand’ero già in vista del traguardo, mi si staccò tutto il corpo dall’anima,

(*) stramazzandomi ai piedi sulla pista.

……………………………..

(*) Lo presi per una mano, povero corpo, e s’alzò che nello stadio, tutto un uragano pazzo d’urrah, (*) entrava l’americano.

Supplicai le mie gambe: (*) “Si va!

Forza, chè abbiamo vinto, su! Uno due, ci bastano pochi uno due ancora, dei brevi uno due, chi vince deve arrivare col cuore di quando partì!” E le gambe: “Sì, sì, anima, sì!” (*) ma tornarono a stramazzare. Avrei corso coi ginocchi e le mani, pur d’arrivare, ma avevo gli occhi pieni d’aghi e sul cuore mi si gelava l’ultimo sudore. (*) Lo stadio ammutolì, mi circondò come un mare di ghiaccio.

C’è gente buona ovunque, come qui.

Sentivo addosso uno sguardo immenso, un unico sguardo sbarrato.

(*) Poi qualcuno mi prese per un braccio il corpo e come un santo in processione,

(*) devotamente, lo portò al traguardo.

Ero in un buio, cieco.

(*) Ricordo un vento, uno scoppio di canto in coro, poi mi parve di morire.(*) Quando risorsi mi vennero a dire che m’avevano squalificato e di nuovo credetti di morire. (*) Avevo corso bene, ero arrivato sfinito, (*) con le gambe in catene, ma col cuore di quando ero partito. (*) E l’indomani fui cinto della corona d’alloro proprio da Sua Maestà, dalla Regina, e c’era ad applaudirmi il mondo intero.

(*) Quando mi diede la coppa, in un coro d’urrah e di trombe, il sole londinese mi parve tra la nebbia un sole vero come quello del mio paese.

(*) Che magnifico piangere fu il mio!

Aveva sul pennone il tricolore una gran voglia di volare. E anch’io!

Non respiravo dal batticuore (*) E vidi sole a Londra, vero sole. Ci vorrebbero le parole che sa trovare un poeta, (*) di quelle grandi, vere. Ma io non sono che un maratoneta e un bravo panettiere.

Qui termina la storia della maratona di Dorando Pietri, (*) quella della maratona di Londra si completò con la vittoria ufficiale di Johnny Hayes, l’americano che pensate un po’ (*) era entrato nello stadio 9 minuti e 46 secondi dopo Pietri, tanto era durata l’agonia in pista del maratoneta di Carpi. (*) Oltre alla Coppa dalla Regina Dorando ricevette un monile dalla contessa di Mexborough italiana d’origine, ed un portasigarette da Conan Doyle, entrambi d’oro, ed un biglietto d’amore firmato Alice, che gli chiedeva se il suo cuore fosse ancora libero. Fu invitato dappertutto, (*) e nella sede del Circolo Italiano ci fu l’incontro con il tenore Enrico Caruso, la massima celebrità italiana dell’epoca.

Poi Dorando lasciò Londra e tornò in patria, (*) via Parigi e Torino dove fu accolto da una folla entusiasta e (*) portato in trionfo per le vie centrali della città. (*) Due giorni dopo, insieme al fratello Ulpiano e al ginnasta Braglia arrivarono a Carpi, (*) negozi chiusi, finestre imbandierate e infiorate, (*) cortei fanfare diecimila persone osannanti venute anche da Modena e persino da Correggio, (*) c’erano tutti dirigenti amici politici e gli inviati di 9 quotidiani d’Italia (*) che avevano dato ampio spazio alla vicenda londinese e c’era pure quello del Daily Mail. (*) Pietri e Braglia erano visibilmente commossi.

Tre mesi dopo, accompagnato dal fratello Ulpiano partì per New York dove gli americani avevano messo in piedi l’affare: (*) la rivincita con Johnny Hayes, nientedimeno che al Madison Square Garden, al coperto su una pista di 160 metri da percorrere 262 volte. (*) Fu un vero affare per tutti, dollari per tutti, Dorando per primo, che sconfisse Johnny per 45 secondi e stipulò contratti con cifre per lui da capogiro.

(*) Restò in America fino a Giugno dell’anno seguente gareggiando su tutte le distanze, tra un allenamento seguito da Ulpiano (*) e un ricevimento alla Comunità Italiana newyorchese, e incassando dollari in tutte le città, da Buffalo a Rochester da Syracuse a St.Louis da Chicago a Filadelfia. (*) Tornò a New York ad Aprile quando il diabolico organizzatore americano presentò il Marathon Derby, (*) una sfida tra i 6 migliori specialisti del mondo al Polo Grounds su pista in erba e argilla. (*) Battè tutti Dorando tranne Saint-Yves, un francese bravo quanto lui, povero come lui, cameriere al Caffè Monico di Piccadilly Circus. (*) Anche un mese dopo, nella rivincita aperta a 13 concorrenti e seguita da 50.000 spettatori, (*) Dorando sofferente alla schiena non ebbe migliore fortuna.

(*) Tra Agosto e Settembre sposò la sua amata Teresa, cerimonia prima in chiesa e (*) poi con rito civile, come si usava allora.

E poi a Gennaio del 1910 ripartì per l’America, (*) imbarcato a Genova sul Principe di Piemonte, e lì giunto a San Francisco (*) lo aspettava la terza sfida in territorio americano con Johnny Hayes. Sfida che vinse ancora, Dorando, e riprese a gareggiare come un dannato, spostandosi come una trottola da Ovest ad Est da Nord a Sud dagli Stati Uniti al Canada, (*) passando per le cascate del Niagara, per raggiungere poi l’Argentina e il Brasile, (*) sfidando canadesi irlandesi corridori dell’Alaska e cavalli montati, sconfiggendo il cameriere parigino (*) e il pellerossa dalle gambe infinite ma intascando sempre dollari tanti dollari. (*) Che gli servirono, tornato in patria, ritiratosi dalle competizioni, per comprare terreni e immobili insieme al caro Ulpiano, e a lanciarsi con lui in (*) un’avventura imprenditoriale dal nome “Grand Hotel Dorando”, tre piani e garage per l’autonoleggio, un’avventura che non ebbe purtroppo esito felice, costi elevati ricavi solo immaginati. (*) Pian piano cominciò a vendere pezzi degli immobili e dell’hotel e si tenne il garage, (*) e visto che con le automobili aveva buon feeling quando l’Italia entrò in guerra fu assegnato alla compagnia automobilisti degli artiglieri di campagna.

(*) Poi, nel 1923, si trasferì con la famiglia a Sanremo dove c’era già il fratello più grande Antonio Ettore, (*) dove proseguì con professionalità e passione l’attività di autonoleggio, prestando servigi inappuntabili a personaggi illustri, (*) dove stavolta la guerra lo lasciò in pace perché aveva il foglio di congedo per insufficienza mitralica, e dove vent’anni dopo, nella serata del 7 febbraio del ’42 morì all’improvviso per una sincope cardiaca, a 58 anni, così, (*) senza neppure il tempo di un ultimo saluto anche un cenno a Teresa a parenti e conoscenti, (*) senza più notizie dei cari amici di un tempo, di Johnny Hayes, di Longboat l’indiano o (*) di Charles Hefferon, sapeva che era in Canada nella polizia dell’Ontario, non seppe che era morto undici anni prima. Non seppe neppure come finì la guerra.

Pietri riceve la coppa d’argento dalla regina Alexandra

Foto da Wikipedia.org

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