di Raffaele Ciccarelli
Nel vorticoso giro di affari che è diventato il nostro calcio oggi, essere presidenti di una squadra equivale quasi a essere top manager, perché il più delle volte i primi si limitano a esserne la proprietà, un esempio per tutti l’Inter, che ha come presidente Giuseppe Marotta, anche se la proprietà è del fondo statunitense Oaktree. Tutto molto asettico, poco empatico, lontano da quei personaggi ruspanti ma genuini che erano a capo dei loro sodalizi, e ne facevano una ragione di vita, personaggi che oggi, con le dovute differenze, possiamo ancora identificare in Aurelio De Laurentiis del Napoli o in Claudio Lotito della Lazio. Un tempo erano la norma, e uno di quelli fu Ernesto Pellegrini, che fu a capo dell’Inter acquistata nel 1984 da Ivanoe Fraizzoli e ceduta nel 1995 a Massimo Moratti, altri due nomi che hanno segnato il “romanticismo” di una certa figura societaria. Un uomo, Pellegrini, che si era fatto da solo, nato da una famiglia di ortolani dopo gli studi capì che quello della ristorazione poteva essere l’attività del futuro e già nel 1965 fondò una sua attività, l’Organizzazione Mense Pellegrini che finirà per imporsi anche in campo internazionale tra le leader del settore. Le ottime disponibilità economiche, anche il tifo per l’Inter, lo trascinarono all’acquisto della società da mano di Fraizzoli per la cifra, che oggi sembra irrisoria ma che non lo era allora, di sette miliardi di lire. Acquista, anche, una società un po’ dimessa, che aveva vinto l’ultimo titolo italiano nel 1980, ma che viveva anche una lunga astinenza internazionale, il suo ingresso nel calcio, però, non fu da neofita, perché nel biennio 1968/1970 era già stato presidente di un altro sodalizio milanese, l’Alcione Milano, squadra che ha sempre militato nelle categorie dilettantistiche e solo nella scorsa stagione è assurta al professionismo di Serie C. Con i colori nerazzurri i successi non arrivarono subito, furono il frutto di una lunga semina e sedimentazione, con tutta una serie di piazzamenti fino alla stagione 1988/1989. Erano gli anni dei grandi campioni nel nostro campionato, impreziosito da Diego Armando Maradona e Michel Platini, l’Inter aveva affidato la conduzione tecnica a Giovanni Trapattoni e si era a sua volta rinforzata germanizzandosi, importando campioni come Andy Brehme e soprattutto Lothar Matthäus, affiancandone quelli che c’erano, nomi del calibro di Walter Zenga, Beppe Bergomi, Aldo Serena, Ramon Diaz, Gianfranco Matteoli, Nicola Berti. Fu una galoppata entusiasmante quella che inscenarono i nerazzurri, chiudendo quello che è passato alla storia come il campionato dei record con cinquantotto punti in trentaquattro partite, quando la vittoria valeva, però, ancora due punti. Un’autentica schiacciasassi che non diede repliche in campionato nelle stagioni successive, appannaggio ancora del Napoli e della Sampdoria, ma ritornando a vincere in campo internazionale nella stagione 1990/1991. Sempre con Trapattoni alla guida, l’organico era stato rinforzato da un altro tedesco eccellente, Jürgen Klinsmann, e arrivò il primo trionfo in Coppa Uefa. Quelli erano gli “Anni di Panna”, il calcio italiano era il migliore del mondo, perciò non meravigliò che sul suo cammino l’Inter dovette superare l’Atalanta ai quarti e la Roma in una doppia finale, vincendo a Milano (2-0) e perdendo di misura all’Olimpico (1-0). Pellegrini avrebbe passato la mano tre anni dopo cedendo a Moratti, nome storico per i nerazzurri, non prima di avere lasciato un ultimo trofeo in bacheca, un’altra Coppa Uefa, vinta superando il Cagliari in semifinale prima di imporsi con un doppio uno a zero agli austriaci del Salisburgo. Una gestione, alla fine ricca, che riportò l’Inter a vincere nell’arengo internazionale, un signor presidente come ormai non se ne vedono più.
