di Raffaele Ciccarelli
I personaggi dello sport, indipendentemente dal ruolo che ricoprono, spesso diventano icone, immagini da adorare come in una sorta di religione laica.
Facile soprattutto per gli atleti che diventano, per i loro tifosi, degli eroi se non dei miti.
Tutto questo crea un’enorme popolarità, li rende riconoscibili in tutto il mondo, soprattutto se poi sono gli interpreti di discipline sportive molto seguite, come il calcio.
Si crea, talvolta, una vera e propria identificazione, atleti venerati quasi fino all’idolatria, diventando dei veri punti di riferimento per i tifosi e il dipanarsi delle loro vite.
Non meraviglia, perciò, se la loro immagine pubblica, il carisma acquisito, è anche sfruttata per fini politici: Pelè è servito alla Fifa nella sua politica di diffusione del calcio; Diego Armando Maradona era trattato come un capo di stato quando passava da una nazione all’altra; di Michel Platini si ricorda la carriera politica all’interno della Uefa, finita per la verità in modo inglorioso, anche se il francese è stato alla fine riconosciuto innocente dalle accusa di corruzione; in Italia quello forse più famoso di tutti è stato Gianni Rivera, candidato ed eletto deputato una volta smessa la carriera agonistica, oppure Damiano Tommasi che, dopo la presidenza dell’Associazione Calciatori, è diventato sindaco di Verona.

Una pratica, come si legge, abbastanza diffusa, che sfrutta proprio la popolarità e il seguito acquisito quando si indossavano i pantaloncini e si calzavano gli scarpini da gioco.
C’è stato, poi, caso in verità abbastanza raro, chi la politica l’ha portata sul campo, ed è il caso che andiamo a raccontare, e il calciatore più conosciuto sotto questa veste è stato il brasiliano Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Viera de Oliveira, conosciuto soprattutto con il primo nome.
Questi nacque in una famiglia povera, ma in cui non era mai mancata a cultura, quasi a dimostrazione che lo sviluppo di questa non conosce censo, grazie al padre che, da autodidatta, era riuscito ad arrivare a un buon impiego pubblico, che permise di assecondare le inclinazioni allo studio di questo suo figlio, chiamato Socrates proprio in onore del filosofo greco.
Insieme a tutto questo c’era anche il calcio: dotato di un fisico asciutto, longilineo, alto, riversava sul campo quell’intelligenza che lo avrebbe caratterizzato nella vita, occupando il ruolo di centrocampista, con un’ampia visione di gioco, un buon tiro da fuori area e ottime qualità tecniche, sopperendo con la velocità di pensiero a una certa lentezza di movimenti, dovuta al fisico dinoccolato.

Sviluppò, inoltre, un particolare gesto tecnico, il colpo di tacco, eseguito in maniera così perfetta, repentina ed efficace da guadagnarsi il soprannome Calcanhar de Deus, “Tacco di Dio”.
Trasferitosi con la famiglia a Ribeirão Preto, nello stato di San Paolo dove lavorava il padre, si iscrisse alla Facoltà di Medicina dell’Università di San Paolo e contemporaneamente si tesserò per la locale squadra del Botafogo, così denominata all’atto di fondazione nel 1918 in onore del più famoso Botafogo di Rio de Janeiro.

Con il Fogão avrebbe militato cinque anni, lasciandolo solo a studi compiuti, nel 1978, per trasferirsi al più prestigioso Corinthians.
Per inquadrare quella che fu la carriera di Socrates con il Timão non si può non descrivere quella che era la situazione politica in Brasile e in tutto il Sud America.
Tra gli anni Cinquanta e la metà degli Ottanta in pratica quasi tutti i paesi dell’America Latina si trovavano sotto dittatura militare, qualcuna particolarmente violenta, come in Argentina e Cile, tanto da ordire un piano comune, conosciuto come “Plan Condor”, che li riuniva tutti con l’unico intento di identificare e sopprimere tutti gli oppositori, con accertato coinvolgimento degli Stati Uniti d’America.
Il Brasile si trovava sotto dittatura militare dal 1964, il popolo subì le angherie tipiche e vigliacche di questi regimi, tra torture e sparizioni di dissidenti, entrando anche nel “Plan Condor” di cui abbiamo scritto.
Una dittatura, quella dei Gorillas, come era nota, che non sottovalutava l’impatto del calcio sulle masse, che però doveva essere interpretato da calciatori completamente disinteressati alla politica, ma in cui il futebol doveva rappresentare l’elemento di distrazione per la gente: il classico oppio dei popoli.
Niente di nuovo da questo punto di vista, quindi, ma qui la novità la portò proprio il calcio, e proprio con il Corinthians di Socrates.

Del resto, non poteva, a ben vedere, essere diversamente: quella che sarebbe diventata il Timão, una delle squadre più vincenti del calcio brasiliano, fu fondata da un gruppo di operai nel 1910 per opporsi ai club elitari, e le fu dato questo nome in onore del Corinthian Football Club, squadra londinese in tournée in Sud America che vinse tutti i match disputati.
Fedele, quindi, al primigenio spirito di squadra del popolo, fu proprio nel club paulista che sorse quella che è passata alla storia come Democracia Corinthiana, un caso unico di autogestione di un club di alto livello.
Opponendosi all’autoritarismo dirigenziale, ma in realtà opponendosi al regime militare, i giocatori del Corinthians decisero di autogestirsi in tutto, su impulso principale dello stesso Socrates, del difensore Wladimir e dell’attaccante Walter Casagrande, che avrebbe vissuto anch’egli una parte di carriera in Italia, spesa tra Ascoli e Torino.
Con questo nuovo sistema gestionale i giocatori erano coinvolti su qualsiasi scelta, per semplice alzata di mano.
In questo modo divennero un simbolo, che poté vedere in questa gestione delle cose, sia pur calcistiche, quello che sarebbe potuto essere nella vita quotidiana per tutto il popolo.
Il tutto, poi, perché alla fine sempre di calcio parliamo, corroborato dalle due vittorie del Timão nel campionato paulista, nel 1982 e 1983, che esaltarono ancora di più le masse dei tifosi.
Consci di essere diventati un importante movimento ideologico, i giocatori pensarono anche, attraverso scritte sulle maglie, di invogliare il popolo ad andare a votare, per le prime elezioni che si sarebbero tenute dall’inizio del golpe.

Il leader conclamato di questo movimento era, appunto, Socrates, ed esso ebbe fine quando nel 1984, lo stesso centrocampista carioca accettò l’offerta di andare a giocare per la Fiorentina.
Non fu il primo incrocio con il calcio del Bel Paese: quella che resta nella memoria collettiva è la sfida dello stadio “Sarrià” di Barcellona, il 5 luglio 1982, ai Mondiali di Spagna, quando di fronte si trovarono, nella sfida decisiva per accedere alle semifinali, l’Italia e il Brasile.
Tutti abbiamo inciso nel cuore e stampato nella mente quale fu l’andamento di quella gara, al minuto dodici divenne protagonista proprio O Doutor, dopo che già Paolo Rossi aveva dato inizio alla sua resurrezione: egli stesso imposta a centrocampo, cede la palla a Zico che restituisce in velocità, con Socrates che piazza probabilmente uno dei pochi scatti veri della sua carriera, eludendo l’intervento in scivolata di Gaetano Scirea e superando sul suo palo, di destro, un non impeccabile Dino Zoff.
Il match si sarebbe poi concluso con il trionfo azzurro e le lacrime carioca, ma Socrates aveva lasciato il suo segno irriverente anche lì.
Poca fortuna ebbe, invece, in Italia, alla Fiorentina, dove pure collezionò venticinque presenze e sei reti, infine la chiusura dell’attività, abbastanza anonima al Flamengo e al Santos.
Terminata la carriera agonistica, si sarebbe dedicato alla professione di medico all’ospedale di Ribeirão Presto, fino a che nel 2011 la sua vita di eccessi, di alcol e tabacco, non presentò il conto definitivo.
Fu la fine fisica, non dell’ideale che quel calciatore, sempre contro corrente, sempre pronto a sposare le cause dei più deboli, incarna e ancora ispira, anche attraverso il ricordo della sua Democracia Corinthiana.










